Giovanni Domenico Ferretti, detto L’Imola (per le origine emiliane della famiglia paterna), fu un pittore molto ricercato in Toscana nel Settecento. Nato al tramonto del Seicento e morto poco oltre la metà del XVIII secolo a Firenze, il Ferretti fu uno dei più importanti pittori, sia d’affresco che su tela, del Rococò toscano.

Suo padre Antonio, originario di Imola, era orafo e la madre Margherita Gori proveniva da una nota famiglia fiorentina, il cui rappresentante più conosciuto fu Anton Francesco Gori, erudito di fama europea, anche per i suoi studi approfonditi sulla civiltà etrusca e cugino di Giandomenico Ferretti.

Ebbe la fortuna di incontrare sul suo cammino professionale un maestro del calibro del bolognese Giuseppe Maria Crespi che apportò alla scuola classicista toscana la grande tradizione emiliano-padana che in Ferretti si fusero in una carriera pittorica di grande originalità, supportata anche da altri artisti con i quali lavorò sia a Firenze, presso Tommaso Redi e Sebastiano Galeotti, che presso il circolo bolognese di Giovan Gioseffo dal Sole, attraverso la frequentazione della bottega di Felice Torelli e la moglie Lucia Casalini, ambedue pittori. Oltre le classiche tele di stampo religioso e mitologico, il Ferretti ci ha lasciato però un ingente numero di tele che parrebbero per noi ispirate a una delle più tradizionali e celebre maschere del Carnevale, ma che attinge in realtà alla Commedia dell’Arte, al personaggio di Arlecchino e i suoi “lazzi” e travestimenti.

Ferretti era solito con il cugino Anton Francesco Gori frequentare le riunioni dell’Accademia del Vangelista, una delle antiche confraternite fiorentine che da sempre si occupava di teatro, ed è facile pensare che da queste riunioni possa esser nato l’amore dell’Imola per il teatro, da cui avrebbe probabilmente trovato ispirazione per le tele su Arlecchino; in particolare poteva aver fornito materia per questa produzione pittorica la frequentazione di Ferretti del Teatro di Via dell’Acqua – l’attuale Via Guelfa – dove nel Settecento si tenevano recite dilettantistiche di soggetti della commedia delle maschere, tra le quali le “Commedie Ridicolose”, un genere teatrale affine alla Commedia dell’Arte, con la particolarità che a recitare erano nobili dilettanti.

Datati intorno al 1750, questo ciclo delle “Arlecchinate” ha suscitato alcune perplessità e una certa curiosità per l’originalità e per il numero consistente di soggetti e varianti degli stessi. Non si conosce in realtà il numero esatto di queste tele del Ferretti poiché sono state dipinte in più versioni e divise fra vari musei e collezioni private: molte delle tele arlecchinesche furono più volte ripetute, alle volte con gli stessi soggetti e gli stessi formati, come nel caso della collezione dei cosiddetti “Travestimenti di Arlecchino” che si trovano sia al Museo John & Mable Ringling di Sarasota (Florida) che nella Collezione della Cassa di Risparmio di Firenze.

La serie nel museo americano ha avuto, tra l’altro, una storia che l’avvicina ancora all’ambiente del teatro in quanto acquistata dall’austriaco Max Reinhardt, che fu uno dei registi teatrali che, all’inizio del Novecento, tentò di rimettere in scena la Commedia dell’Arte. La serie delle tele di Arlecchino in suo possesso si trovavano fino al 1938 nel suo Castello di Leopoldskron di Salisburgo ma con l’avvento del nazismo e il Terzo Reich, Reinhardt fu costretto a lasciare il Vecchio Continente per emigrare negli States, e con lui anche i quadri di Ferretti oltrepassarono l’Atlantico, e nel 1950 saranno lasciati al Museo dell’Università del Kansas di Lawrence, dove è rimasta una piccola serie di quattro quadri e in seguito, la collezione più numerosa, fu venduta a Sarasota dagli eredi di Reinhardt.

In Italia alcuni di questi quadri si trovano ancora in vari musei, principalmente musei teatrali, e collezioni private a Roma, Firenze, Milano e Trieste. Non mancano, tuttavia, ad oggi, gli interrogativi su queste opere seriali. Innanzitutto perché un frescante di grande successo ha dipinto dei quadri con un soggetto tanto originale ma scarsamente considerato dalla critica artistica? E in secondo luogo rimane sconosciuta la committenza: forse l’Accademia del Vangelista? Al momento però nessun documento noto supporta quest’ipotesi. E le ”Arlecchinate” di Giovanni Domenico Ferretti sembra un simpatico scherzo di Carnevale.