
In questo periodo di rinascita, condividiamo una riflessione con voi, sentendo il bisogno di parlare del primo passo.
C’è qualcosa di profondamente simbolico nel primo passo. Non è solo una tappa dello sviluppo motorio infantile, ma un atto archetipico: la prima forma di volontà che si fa movimento, la conquista della verticalità, della direzione, della scelta. Quel gesto, inscritto nel corpo, racchiude l’origine della nostra capacità di orientarci nel mondo. Ogni volta che parliamo di cambiamento – personale, collettivo o culturale – torniamo, consapevolmente o meno, a quel momento primordiale in cui impariamo a stare eretti, a spostarci, ad agire. È un gesto semplice, ma rivoluzionario. È, in definitiva, il primo atto di autonomia.
Oggi, in un’epoca attraversata da trasformazioni profonde nel modo in cui ci relazioniamo, sento il bisogno di ritornare proprio a quel gesto originario. A quel primo passo che può ancora suggerirci qualcosa sul nostro presente.
Grazie al #metoo.
Sempre più spesso ascolto donne – e non solo – che esprimono un senso di smarrimento nei rapporti affettivi, un’incertezza nei linguaggi dell’incontro. “Dopo il #MeToo – dicono – gli uomini sembrano incapaci di fare il primo passo”. Come se il desiderio maschile fosse diventato improvvisamente timido, o sospettoso. Come se la possibilità stessa di entrare in relazione fosse stata neutralizzata da una nuova grammatica che, ancora, non si conosce. Ma forse stiamo leggendo il fenomeno al contrario. Non è “colpa” del #MeToo. È grazie al #MeToo che siamo oggi chiamati a reinventare i modi dell’incontro.
Il #MeToo non ha semplicemente denunciato una serie di abusi. Ha disarticolato un immaginario. Ha svelato come desiderio, potere e linguaggio si siano intrecciati, spesso in maniera violenta, dentro le trame del quotidiano. Ha reso visibili dinamiche normalizzate, opache, interiorizzate. Ha imposto un tempo di ascolto dei corpi: feriti, sovradeterminati, dimenticati.
Quella che stiamo vivendo non è, come spesso si dice, una crisi della relazione. È, piuttosto, una sua fase di riformulazione. Non siamo in un vuoto, ma in un interregno, per dirla con Gramsci: il vecchio non è ancora morto, il nuovo fatica a nascere.
Perché l’amore fa male?
La sociologa Eva Illouz, in testi cruciali come Perché l’amore fa male? e La fine dell’amore, ha indagato con lucidità le trasformazioni delle emozioni nell’epoca tardo-capitalista. L’amore non è immune alle logiche di mercato: si consuma, si contratta, si valuta. In un tempo che celebra l’autonomia come valore assoluto, l’altro diventa facilmente un rischio da evitare piuttosto che un enigma da accogliere. Eppure, come ci insegnano le psicologie relazionali e la filosofia pratica, la soggettività si costruisce sempre nel legame.
Nessuno è davvero libero senza una relazione significativa con l’altro. Il #MeToo, allora, ci offre la possibilità – rara – di ridefinire i codici del desiderio. Per gli uomini che hanno vissuto l’incontro come imposizione, come prestazione o come diritto, è un’occasione per interrogare i propri automatismi.
Per chi pensa che “non si possa più dire nulla”, forse è il momento di chiedersi cosa si diceva, e perché era accettato. Il silenzio che molti leggono come paralisi potrebbe essere, in realtà, uno spazio di apprendimento. Una sospensione fertile. E per le donne? È forse l’opportunità di emanciparsi da un copione che le ha volute perennemente in attesa, oggetti del desiderio ma non soggetti desideranti. Siamo ancora eredi di un inconscio collettivo che ci spinge alla remissività, alla cautela, alla negazione del potere di scelta. Ma ora possiamo, finalmente, rivendicare un nuovo ruolo: quello di chi si muove per prima, non per compiacere, ma per agire.
Il primo passo, oggi, può essere fatto da chiunque. Purché sia consapevole, reciproco, ascoltato. Siamo – forse per la prima volta – in una condizione collettiva simile a quella di un’orchestra prima del concerto: strumenti accordati, orecchie tese, mani che cercano la giusta intensità. Non è disordine, è preparazione. È in quel silenzio che possiamo immaginare una nuova melodia: relazioni fondate non più su ruoli precostituiti, ma su un’alleanza possibile tra soggetti liberi, fragili e curiosi. Il #MeToo non ha rotto qualcosa. Ha aperto uno spazio.

Il Corpo parlante.
Ma per attraversare questo spazio, per camminare davvero verso un nuovo modo di entrare in relazione, dobbiamo fare i conti con un’eredità che ci abita profondamente: il corpo.
Il corpo non è mai neutro. È un testo scritto dalla cultura, un archivio vivente di norme, desideri, gerarchie. Il corpo femminile, in particolare, è stato storicamente espropriato: oggetto di controllo, di giudizio, di narrazione altrui. Ma anche il corpo maschile è stato colonizzato, seppure in modi diversi. Ha dovuto imparare a performare forza, dominio, iniziativa. Il #MeToo ha rotto questo silenzio, ma non si è limitato a denunciare.
Ha politicizzato il vissuto. Ha trasformato l’esperienza soggettiva in discorso collettivo. È stato, come scriverebbe Judith Butler, una forma di agency incarnata: il potere di riscrivere sé stessi passando per la vulnerabilità. Oggi, allora, ci troviamo nel cuore di una negoziazione: tra il desiderio di vicinanza e la necessità di rispetto, tra la spontaneità e la consapevolezza, tra il linguaggio antico e quello nuovo, ancora da inventare. Il consenso, troppo spesso ridotto a semplice “permesso”, è in realtà una costruzione culturale complessa. Non è solo un sì o un no. È un processo di riconoscimento reciproco, un esercizio di attenzione, di sintonia.
L’amore è un atto di volontà.
Come ha scritto Bell Hooks, l’amore è un atto di volontà – non un istinto, né un automatismo. È una pratica, e come tutte le pratiche, richiede apprendimento, fallimento, riformulazione. E allora, in questo scenario in cui tutto sembra incerto, forse dovremmo chiederci: perché continuiamo a pensare all’amore, al desiderio, alla seduzione, come qualcosa di naturale e non come una competenza? Perché immaginiamo che l’incontro debba essere spontaneo, quando tutto nel mondo contemporaneo è diventato sempre più mediato, riflessivo, contrattuale? Il #MeToo non ha tolto spontaneità alla relazione: ha reso visibili le asimmetrie che la spontaneità spesso nascondeva. Ha messo in discussione l’idea che la libertà dell’uno possa ignorare l’ascolto dell’altro. E ci ha ricordato che la libertà, per essere reale, deve essere condivisa.
Oggi, chi fa il primo passo non è necessariamente colui o colei che desidera di più, o che domina la scena. Ma chi è disposto a rischiare l’incontro, accettando la possibilità del rifiuto, del fraintendimento, della complessità. Chi è disposto a stare nell’intervallo – tra la parola e l’ascolto, tra l’intenzione e la percezione. È in questo spazio fragile e potente che possiamo cominciare a costruire un nuovo modo di essere in relazione. Generare un pensiero relazionale all’altezza del nostro tempo.
Un pensiero che riconosca le ferite senza feticizzarle, che trasformi la paura in responsabilità, il disagio in domanda. Un pensiero che sappia fare il primo passo, per poi camminare.
Le foto dell’articolo sono di Viktoria Slowikowska
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