Eleonora, come si diventa traduttrice?

Con passione, tanto studio e soprattutto esperienza. È una professione altamente specializzata, richiede competenze specifiche che vanno ben oltre quelle meramente linguistiche, anche se l’esistenza di software e macchine in grado di tradurre al posto dell’uomo fa sì che molte persone la pensino diversamente. Un occhio esperto, o semplicemente uno sguardo approfondito, rivelano quasi sempre che una macchina non traduce affatto come una persona.

Se si svolge questa professione in proprio, come sto facendo io, queste competenze non bastano più: si apre un’intera nuova dimensione, quella dell’imprenditorialità, che purtroppo non insegnano all’università e che bisogna imparare in prima persona, studiando (non si smette mai), compiendo errori, sudando varie camicie… insomma: facendo esperienza.

Quando hai deciso che da grande avresti fatto questa professione?

Non ricordo il momento preciso, ma so che fino ai 17 anni, come la maggior parte delle persone, non ero consapevole dell’importanza dei traduttori e di come toccassero la nostra vita da vicino. Sapevo che c’erano, ma non me ne rendevo conto, come un oggetto che si intravede solo con la coda dell’occhio, o un pensiero in fondo alla mente che non viene mai a galla.
Iniziato l’orientamento per l’università, vista la mia passione dichiarata per le lingue (in particolare l’inglese, in cui andavo così bene), venni a sapere che c’era questa particolare facoltà, la SSLMIT (che ha avuto molti altri nomi, fosse anche solo perché questo è impronunciabile, tipo Scuola interpreti o DIT, Dipartimento di Interpretazione e Traduzione, come si chiama oggi) che era il top per chi voleva studiare “Lingue”. E informandomi su questa facoltà scoprii non solo che preparava a molto più che il semplice studio delle lingue, ma anche che, con queste ultime, si potevano fare molte più cose che studiarne la grammatica e la letteratura. Una volta superato il test e iniziato a frequentare, ho avuto la mia conferma e non ho mai rimpianto questa scelta.

Quali competenze linguistiche vanti?

Traduco dall’inglese e dal tedesco in italiano. L’inglese lo studio da che ho memoria, il tedesco l’ho iniziato e “recuperato” durante gli anni dell’università, con grande fatica e sudore, ma anche grazie a professori preparatissimi (madrelingua e non) che mi hanno presto portato a un livello paragonabile a quello degli altri studenti che studiavano tedesco sin dal liceo.

Ti piace viaggiare? Quali esperienze hai avuto all’estero?

Moltissimo. Di solito non aspetto neanche di essere tornata da un viaggio prima di programmare il successivo. Tra le esperienze più lunghe ci sono un’estate passata nel sud dell’Irlanda a lavorare come au pair (ero al primo anno di università) e una vacanza studio a Berlino, città di cui mi sono innamorata per la sua storia e le sue sfaccettature.

Sapresti indicare un pregio e un difetto di essere freelance?

Un pregio è la possibilità di lavorare come si vuole, su che cosa e con chi si vuole. Vorrei aggiungere “quando si vuole”, ma la realtà è che il mio lavoro è basato sulle scadenze e che faccio di tutto per accontentare i clienti.
Un difetto è, sicuramente, la solitudine: lavoro da casa e a volte questo significa non mettere mai il naso fuori dalla porta in una giornata né vedere un altro essere vivente. La città in cui vivo, per fortuna, mette a disposizione spazi di co-working (cioè uffici condivisi) e locali in cui ci si può fermare a leggere o lavorare, usufruire del Wi-Fi e magari concedersi un pezzo di torta senza essere disturbati troppo.

Tra i settori in cui sei specializzata ci sono quelli che coincidono con le materie di tuo interesse o segui una logica di mercato derivante dalla maggiore domanda in quegli ambiti?

Entrambe le cose. Buona parte della mia esperienza riguarda il settore tecnico e il marketing, che oggigiorno sono alcuni degli ambiti più richiesti, ma insisto comunque per portare nella mia professione due mie grandi passioni: i viaggi, appunto, e la gastronomia. Il mio obiettivo è avere un lavoro che possa svolgere con così tanta passione da non sembrarmi tale, e mi sto impegnando in questa direzione. Work in progress!

Un discorso a parte richiede l’editoria, vero?

Ebbene sì, almeno l’editoria-narrativa. Il lavoro di un traduttore tecnico può essere molto diverso da quello di un traduttore editoriale: cambiano i committenti (non più necessariamente aziende o agenzie di traduzione, bensì case editrici), i tempi di realizzazione (la lunghezza media di un testo di narrativa è molto superiore a quella di un testo tecnico), il modo di scrivere e quindi le competenze. A volte un traduttore editoriale deve attivarsi in prima persona, fare lui stesso una proposta di traduzione e, se viene accettata, a libro pubblicato può anche essere chiamato a promuoverlo nel proprio Paese.

Qual è stato il progetto della tua tesi di laurea?

Lo studio dello shock culturale (in tedesco Kulturschock) e degli stereotipi nell’opera narrativa dello scrittore tedesco Uli T. Swidler, di cui ho fatto una proposta di traduzione parziale. Il destino ha voluto che durante il mio soggiorno a Berlino pescassi il suo libro Toskana für Arme da una cesta di occasioni e scoprissi che, a dispetto del titolo, parlava dell’arrivo di un giovane tedesco nella mia regione, le Marche, e del suo incontro/scontro con i personaggi e la cultura locale. Il confronto tra culture è sempre stato al centro dei miei interessi; è anche per questo che adoro viaggiare. Fare la tesi di laurea su questo tema, a quel punto, mi è venuto completamente naturale.

Qual è lo strumento indispensabile del tuo lavoro?

Il computer. Lo sviluppo delle tecnologie e di Internet avvenuto negli ultimi 10-15 anni ha avuto effetti determinanti sulla professione del traduttore: ciò che prima si faceva a mano, scrivendo a penna, consultando dizionari cartacei e recandosi a fare ricerche in biblioteca, adesso viene fatto di regola al computer, servendosi di software specifici, dizionari digitali e di quell’immensa enciclopedia che è il Web.

C’è una richiesta curiosa che ti è stata rivolta e che puoi raccontarci?

Amo il mio lavoro perché è imprevedibile e diverso ogni volta. Di solito non mi occupo di queste cose, ma in un’occasione ho ricevuto una richiesta per la traduzione di un “fumetto”. Approfondendo, ho capito che si trattava di una strategia di marketing adesso molto in voga per la sua efficacia: lo storytelling. Il fumetto non era insomma per uso puramente ricreativo, ma raccontava l’esperienza di due persone normali con i prodotti del committente (caravan). Un modo creativo e divertente di farsi pubblicità.

Quali progetti hai per il futuro?

Voglio concentrarmi sempre di più nel campo della traduzione creativa, in ambiti come il turismo e la gastronomia. C’è ancora tanta esperienza che posso fare e il mondo della traduzione, così profondamente influenzato dallo sviluppo delle tecnologie, non potrà che evolversi in maniere che non possiamo del tutto prevedere. Essere aperti, positivi e “agili” ci permetterà di affrontare qualsiasi cosa.

Esiste l’equivalente di “in bocca al lupo” nelle altre lingue per augurarti “buona fortuna”?

Anche l’inglese e il tedesco hanno espressioni di “scongiuro” come la nostra: gli inglesi usano “Break a leg”, un’espressione nata nel contesto teatrale, e i tedeschi “Hals- und Beinbruch!” (“rottura del collo e della gamba”, ancora più macabri!). Facciamo che va bene un semplice “Good luck” o “Viel Glück”!

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