L’articolo 1 della nostra amata e odiata Costituzione recita che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Ho riportato per intero l’articolo, nonostante sia convinta che il 99% di noi conosca solo la prima parte, me compresa. Punto. Dopodiché l’oblio, ma vabbè, la parte interessante è proprio la prima. Se rileggo la frase è difficile non comprenderne il significato: sottolinea l’importanza del lavoro e la dignità che se ne ricava da quest’ultimo. Ma non mi pare che sia scritto che il lavoro debba diventare una specie di schiavitù o una sorta di 41 bis. Va bene che oggi essere definito stacanovista, a volte, è un complimento, però usarlo come metro di ricatto è assolutamente controproducente. Se già i titolari ti chiedono straordinari non retribuiti, le domeniche di dicembre, storcono il naso alla richiesta di un permesso o magari ti ritrovi costretto ad andare a lavoro con la febbre o una caviglia slogata, c’è da pensare che il peggio sia arrivato. E invece no! C’è sempre qualcosa di peggio: i clienti che pensano che tu sia in realtà una cinese con gli occhi rifatti oppure un robot di marca giapponese, perché memori del telefilm “Super Vicky”. Persino il mitico robottino Emiglio, dolce ricordo di un’infanzia ormai preistorica aveva il suo meritato riposo dopo l’iniziale euforia dei bambini, per diventare poi un oggetto ornamentale insieme alle piante grasse della mamma e ai centrini della nonna.

È consuetudine diffusa, oramai, che i cinesi siano i lavoratori per antonomasia, degni eredi del ben più famoso e celebre Stachanov, minatore russo che fu premiato nel suo paese per la dedizione al lavoro e per aver creato tecniche che acceleravano i tempi di estrazione dei materiali. I miei più vivi complimenti al signore, ma questo non significa che io devo spostare la residenza nel negozio dove lavoro. E la clientela deve smetterla di pensare che viviamo per servirli. Partendo dalla consapevolezza che il commesso è a servizio della comunità, quello che questa povera creatura non sa, è che gran parte della comunità è convinta che lui debba lavorare 24 ore su 24, neanche fosse un centralino, rinunciando a qualunque forma di vita privata. Non siamo un pronto soccorso dove ogni cosa diventa un’emergenza. Che emergenza è la signora che pretende di farti aprire quando il negozio è chiuso perché deve comprare degli slip o dei collant? Ma, soprattutto, quali tipo di emergenze potrebbe soddisfare un negozio di abbigliamento e bigiotteria? Se le persone comprano i collant ad 1 euro uno alla volta, il rischio di un congelamento diventa alquanto realistico.

Siamo tutti d’accordo nel dire che il lavoro è importante, ma non che noi commessi siamo obbligati a lavorare il 25 dicembre o il 1 gennaio, nel giorno del capodanno cinese, ortodosso o indiano. Anche noi abbiamo famiglia, cani e gatti che ci aspettano a casa. È per questo motivo che, davanti a certe domande o richieste, lo sguardo dei commessi si spegne come forma di rassegnazione alla crudeltà dei clienti. Non si può criticare un commesso che non salta di gioia e non fa le capriole quando gli comunicano che dovrà lavorare nel giorno in cui aveva pensato di rimanere spiaggiato nel letto, munito di poc-corn e pronto per una maratona su Netflix. E l’assurdità raggiunge confini inenarrabili quando facendo notare che anche Dio si riposò il settimo giorno, l’espressione attonita del cliente ricorda quella di un pugile al quale hanno sferrato, all’improvviso, un colpo inaspettato al basso ventre. Ma a questo mimo di stupore seguono, poi, una sfilza di domande che sfidano la Domenica Live della D’Urso: “Ma perché?”, “Davvero? E’ strano?”, “E come faccio io ora?”.

Quello che mi fa salire i trigliceridi a livelli alieni è l’assoluta convinzione da parte dei clienti che i commessi debbano lavorare come se fossero in una piantagione di cotone degli Stati Uniti del sud. Ma anche lì, intorno al 1865, hanno abolito la schiavitù: bisogna dunque supporre che la clientela non ha mai avuto grande feeling con la storia, questa sconosciuta.

E qui parte una sorta d’invidia verso i lavoratori cinesi che sembrano instancabili. Ma come diamine fanno a mantenersi iperattivi e sorridenti sempre e dovunque? Anche i coniglietti della Duracell esauriscono, presto o tardi, le batterie. Io, nel periodo natalizio, croce per me e delizia per molti, il 24 dicembre mi ritrovo a raggiungere casa trascinandomi per i gomiti, quasi per inerzia e, se per molti il veglione è una festa con le proprie famiglie che si protrae fino a tardi, il mio invece è rappresentato dal letto con me che guardo, per l’ennesima volta, “Una Poltrona per due”.

Ma la cosa paradossale è, che coloro che desiderano che tu faccia lo stesso orario di un kebabbaro, sono per lo più dipendenti statali: avete presente quelli che hanno la settimana corta, lavorano fino alle 17, hanno tredicesima, quattordicesima e quindicesima, ferie retribuite, permessi e contropermessi? Sì, proprio loro, che dall’alto di un lavoro sicuro come la morte giudicano chi non ha la loro fortuna, vista la situazione attuale. E, per ironia della sorte, spesso sono quelli che si lamentano con noi poveri schiavi del loro lavoro stressante e noioso. Come vorrei poter fare come il personaggio di Lino Banfi nel film “Quo Vado” di Checco Zalone che dopo un buffo deciso in testa grida puntando il dito “Non bestemmiare! Il posto fisso è sacro!”

1) Cliente:«Senta, non sono convinta di acquistare questa cosa. Magari passo domenica perché adesso ho fretta.»

Io: «La domenica siamo chiusi signora! Ma siamo aperti sempre dal lunedì al sabato.»

Cliente: «Come siete chiusi? E perché?Come devo fare? Non è che potete aprire domenica mattina un’oretta così riesco a passare?»

Io:

2)Siamo sotto natale e in negozio entra una cliente abituale che lavora alle poste, una di quelle signore che hanno la simpatia di un cactus sulla sedia e la delicatezza di un mignolo che sbatte sui piedi del comodino. Inizia a parlare con la mia collega raccontando tutte le sue disavventure, un lamento continuo che fa sembrare un bambino del Congo un privilegiato. Ad un tratto commenta di alcune commesse di un negozio che, fra di loro, stavano discutendo sul fatto di lavorare le domeniche sotto Natale. Da quello che racconta, le ragazze sostenevano che erano dispiaciute di non potersi godere l’atmosfera natalizia o l’uscita domenicale con il fidanzato. Un cosa normale credo. Ma non per questa signora che ha iniziato a giudicarle come se avessero pianificato un attentato terroristico.

Cliente: «Poi si lamentano che non c’è lavoro. Che problema c’è a lavorare qualche domenica in più? Sempre a lamentarsi. Non ho parole!»

E così il bue disse cornuto all’asino! Lei , la prima a lamentarsi del troppo lavoro nonostante un contratto part-time, la prima a dire sempre parole deliziose verso i suoi “amati e stimati” colleghi, colei che anche per un un solo minuto di lavoro in più si agita e esige lo straordinario. Vorrei vederla le domeniche natalizie a sorbirsi clienti simpatici come lei, a rinunciare al pranzo dell’Immacolata e comprare qualche regalo nella pausa pranzo correndo, perché il tempo a disposizione è poco.

Cliente: «Non è vero signorina?»

Io: «Come scusi?»

Cliente: «Dico, ho ragione a pensare che certe persone sono proprio sfaticate.»

Io: «Beh, se lo dice lei.»

Cliente: «Ma non lo dico io.»

Io: «Veramente è lei quella che sta affermando che lavorare qualche domenica in più senza essere considerato straordinario è ordinaria amministrazione.»

Cliente: …

Quando ci vuole ci vuole!

3)Siamo in orario di chiusura serale anzi, abbiamo tardato un po’ di più. Stiamo per inserire l’allarme quando una signora arriva tutta di fretta.

Cliente: «State chiudendo?»

E’ certo che questa persona non brilli per la spiccata intelligenza. Tutto spento, tre figure con cappotto e borsa che stanno uscendo…non ci vuole molto a capire che abbiamo chiuso.

Io: «Sì signora, siamo chiusi.»

Cliente: «Dovevo vedere un paio di pantofole.»

Io: «Mi spiace!»

Cliente: «Oh! Non pensavo che già chiudevate. Pensavo che vi intrattenevate un po’ di più. Vabbè, provo al negozio di fronte.

Io: «Il negozio di fronte ha già chiuso»

Cliente: «Uff! Allora mi guardo un po’ la vetrina.»

Detto questo se ne va, attraversa e va dall’altra parte. Io e i miei colleghi finiamo di inserire l’allarme, ci assicuriamo di aver chiuso bene e ci salutiamo quando la signora di prima ricompare all’improvviso, manco fosse un ausiliario del traffico che si traveste da platano e ti coglie in contravvenzione, per chiedere qualcosa di assolutamente fuori da ogni realtà.

Cliente: «Scusate, ma la chiusura è definitiva?»