Corpo a corpo

Silvia Ranfagni

Edizioni E/O

Pagg. 156

 

Il desiderio di avere un figlio che riempia il vuoto di chi comincia a chiedersi “Che cosa ho costruito nella vita?”; la paura che quel figlio ci abbandoni, si stacchi per quel processo naturale e normale da noi, riprecipitandoci in quella solitudine che non è mai venuta meno: questi sono solo gli estremi tra cui si snoda una vicenda umana tutta femminile, che, più che la narrazione del desiderio di avere un figlio è un ritratto feroce, lucido e disincantato dell’egoismo umano. Materno, in questo caso. E questo romanzo lo dichiara senza reticenze e alibi.

Accade tutto al presente – un presente quasi privo di precise coordinate temporali – in questa storia in cui anche l’uso peculiare della seconda persona singolare, che la protagonista utilizza per parlare di sé stessa, contribuisce a produrre quello strano effetto di distacco dal personaggio. Può capitare di chiedersi, alla fine della lettura, se l’intento dell’autrice fosse proprio quello di rendere la figura di donna e madre che descrive ancora più invisa. Cosa si può amare in questa protagonista? Nulla, se non la capacità di dipingersi sotto la luce peggiore. Il romanzo narra infatti del disagio profondissimo che si impossessa di una madre quando, nel momento stesso in cui mette al mondo il figlio che supponeva di desiderare, quel desiderio si trasforma nel suo opposto. In volontà di fuga, in incapacità di sopportare quel “Corpo” che non ha niente di bello, che grida e basta, che chiede, senza dare. O che dà senza che quella madre sappia riconoscere quello che riceve come dono (non basta quel “Grazie di avermi resa amata la rinuncia, grazie per avermi insegnato a dimenticare me stessa” quasi alla fine del romanzo).

Quello che il lettore si trova di fronte è l’egoismo (non del tutto slegato, per ammissione stessa della protagonista, dalla sua condizione sociale), di una donna benestante che ha pensato alla maternità come a una panacea e invece si trova a vivere un incubo. Un incubo in cui, per ritornare a essere donna, ha bisogno di delegare le proprie funzioni materne a una tata. Se la sua indispensabile presenza le consentirà di far fronte a una vita prima ritenuta insostenibile, la tata porterà con sé quel carico di dolore e sofferenza legato a paesi lontani in cui il disagio estremo è di casa, dai quali si fugge, e tenderà ad assumere con il bambino abitudini quasi da madre, che sfociano in atti discutibili, (come il battesimo segreto) tanto da far sorgere in chi la ha assunta il desiderio di liberarsene. Ma in fondo, non è anche questo un atto di egoismo? La Madre pensa che il suo potere venga meno, che quel figlio che è sua proprietà le sia in qualche modo sottratto dall’influenza di un’altra. Quasi non c’è redenzione per questa esperienza di maternità, che, anche alla fine, quando il distacco del figlio è tangibile, mi pare sia sofferenza solo perché si ritorna a quella solitudine da cui si veniva e che non è mai stata superata, nemmeno con un figlio. Un romanzo sulla solitudine insuperabile, questo, più che sulla maternità.

Non sempre si riesce, attraversando le pagine, a credere fino in fondo a questa storia, forse perché la consapevolezza con cui viene narrata sembra a volte esagerata. Ma è un esordio notevole, e quindi mi piace sottolinearne i pregi. L’autrice riesce a tenere il lettore in ogni caso incatenato a una voce narrante (la protagonista che si sdoppia e si fa giudice di sé stessa con quella seconda persona che le permette di guardarsi dall’esterno) che è forte perché la lingua con cui si esprime la rende tale. Una lingua fatta di toni eccessivi, che procede per iperboli che devono esprimere l’incubo in cui vive, ma da cui traspare una penna matura, capace di passare dal registro scurrile a quello della citazione dotta. Insomma, Silvia Ranfagni ha uno stile. E senza dubbio la sua scrittura disinibita e spregiudicata è una prova di coraggio. Quindi sì, leggerò il suo secondo romanzo. Da cui mi attendo un’ulteriore prova di stile che sono certa non mancherà, ma anche qualche sbavatura, se questo vuol dire una concessione alla “verità” della storia.

Alessandra Penna