25 aprile 2024. Nel settantanovesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo pubblichiamo l’intervento di Maria Grazia Greco* che ci racconta quanto sono state importanti le donne per la Resistenza. Nonostante ciò la mentalità patriarcale non era stata superata. E siamo ancora qui a combattere.

Le donne della Resistenza. Quanto sono state importanti le donne nella e per la Resistenza? E quanto è stata importante la Resistenza per le donne? I dati forniti dall’ANPI parlano chiaro: nella Storia del 25 Aprile, le donne hanno avuto un ruolo di primo piano: 35.000 le  partigiane  inquadrate nelle formazioni combattenti; 20.000 con funzioni di supporto; 4653 di loro furono arrestate, torturate, stuprate; oltre 2750 vennero deportate in Germania; 2812 fucilate o impiccate; 1070 caddero in combattimento. Solo 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare.

L’urgenza delle donne nella storia del 25 Aprile.

Nella maggior parte dei casi le partigiane, hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, riviste, materiali di propaganda. Rischiavano la vita, torture e violenze sessuali. Non era mai successo prima che le donne entrassero in scena da protagoniste. Non così numerose, e di ogni condizione sociale. A renderle straordinarie era il fatto che l’Italia fascista le aveva trasformate in ombre: non avevano diritti, né voce, né uguaglianza. Che avessero trovato il coraggio, la determinazione e l’altruismo per lottare e spesso subire arresti, torture, violenze ed esecuzioni: fu questo a renderle davvero eccezionali.

Sono state 35.000 le partigiane inquadrate nelle formazioni combattenti. Per le donne la scelta delle armi è sempre dolorosa, ma talvolta ineludibile. Il rapporto con le armi passa attraverso un sentimento di rivolta: è quel quando è troppo è troppo che leggiamo in più di una memoria. È l’ingiustizia divenuta intollerabile, è l’urgenza di porre fine al fascismo e alla guerra. Utilizzando le armi, le donne invadono il ruolo maschile (perché le armi sono pensate dagli uomini per gli uomini), ma non ne fanno mai un oggetto di presunzione, bensì di estrema necessità, in una contingenza storica eccezionale. Scrive la partigiana  Laura Perseghettini, “Non mi è mai piaciuto vedere gli altri cadere, anche se erano il nemico”.

La prima volta delle partigiane, Carla Capponi e Rosa Biggi.

Ma che cosa è stata realmente la partecipazione femminile alla Resistenza? Quali le articolazioni attraverso cui si è espressa? Quali motivi ideali hanno ispirato l’azione di tante donne? Sapevano a che cosa andavano incontro? Si può individuare nell’ampiezza della presenza delle donne, così varia per età ed estrazione sociale, la matrice della successiva rivolta femminile?
Scrive Carla Capponi: “Per la prima volta prendevo decisioni importanti, assumevo responsabilità personali impensate fino a quel momento, e me le assumevo da sola, senza il sostegno e il consiglio dei famigliari. Improvvisamente ero adulta e responsabile di me stessa. Questo sentimento si accompagnava a una sensazione di straordinaria libertà. […]  Una libertà senza aggettivi.” 
Racconta Rosa Biggi, partigiana ligure: “Finalmente mi sono sentita qualcuno”. È un’esperienza elettrizzante ma rara, in un mondo in cui le donne erano nessuno, relegate nel ruolo tradizionale della semplice funzione riproduttiva e di cura della casa e della prole,  forza lavoro gratuita. Per moltissime donne l’adesione alla lotta partigiana costituisce quindi un momento di rottura e di rinascita.  

La resistenza femminile, rompere il silenzio con la memoria.

La liberazione si intreccia di fatto con una miriade di piccole lotte di liberazione personale dai limiti imposti dalla famiglia, dalle condizioni sociali, dall’essere donna. Lotte di liberazione personale che danno vita a una grande, inedita guerra di liberazione delle donne. Liberazione dentro la Liberazione, quindi: questa  la cifra della Resistenza delle donne. 
Sono innumerevoli gli esempi di coraggio e di eroismo delle donne che hanno partecipato alla Resistenza. Eppure il loro ricordo è entrato solo recentemente – e faticosamente – nella storia ufficiale della Resistenza italiana. Dopo la fine della guerra, c’è stata una specie di silenzio generale sulla Resistenza femminile, una vera e propria cancellazione della memoria della presenza e dell’azione delle donne. Uno dei pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani, “Le donne nella Resistenza” del 1965. E poi ricordiamo il romanzo “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò pubblicato nel 1949, da cui il film omonimo di Giuliano Montaldo  del 1976; il memoir “Croce sulla schiena” di Ida D’Este del 1963; “I giorni veri” di Giovanna Zangrandi anch’esso del 1963. Sono solo alcuni dei testi che contribuiscono a rompere il silenzio in cui era sprofondata l’esperienza della Resistenza femminile. 

Liliana Cavani, La donna nella Resistenza, 1965. Documentario
La Resistenza femminile, una storia mai scritta.

Perché in realtà la storia della Resistenza femminile non è mai stata scritta. Solo recentemente una ricerca storiografica svolta secondo uno sguardo diverso, in prevalenza da studiose e ricercatrici, è valsa a restituire un altro aspetto fondamentale ma ignorato dalla storiografia ufficiale: che la Resistenza delle donne non è stata unicamente quella delle staffette, delle combattenti, di coloro che hanno partecipato ad azioni di sabotaggio. Ma è stata anche e forse soprattutto quella dei gesti quotidiani delle donne che, mettendo consapevolmente a rischio la vita, fornivano  cibo e indumenti ai soldati sbandati, offrivano  rifugio e nascondevano chi fuggiva da fascisti e nazisti.
Un fenomeno trasversale che ha interessato donne di varie classi e condizioni  sociali, da quelle del popolo a quelle della borghesia e finanche alle religiose di vari istituti ecclesiastici. Si tratta in realtà di una Resistenza diffusa, una presenza e un’azione non organizzate, ma nei fatti una vera e propria rete di donne, una forza collettiva estesa che ha salvato molte vite, che ha reso possibile la sopravvivenza a coloro che  (combattenti,  antifascisti,  soldati sbandati, ebrei)  avevano necessità di fuggire e di nascondersi. Un aspetto della Resistenza femminile ignorato, un fenomeno sottratto alla sua autentica dimensione popolare e di massa. Una scelta intrinsecamente politica nel senso profondo del termine, ma anche molto coraggiosa perché esponeva a rischi enormi le donne che la facevano. Un “maternage” a cui innumerevoli ragazzi e uomini devono la propria sopravvivenza.

Il grande salto, il capovolgimento del mondo.

Non bisogna però assolutizzare questo “paradigma materno”, che convive parallelamente ad altri modelli e ad altre motivazioni. Le donne sono, fin dall’inizio, protagoniste di molteplici forme di lotta, come ad esempio nei grandi scioperi del marzo ’43, consacrati dalla memoria e dalla storiografia come “il primo atto di resistenza di massa”; nelle battaglie di Porta San Paolo e della Montagnola a Roma; sulle barricate a Napoli, nelle famose quattro giornate. Erano tanti i modi di combattere, che si cucinasse, si cucissero divise, si sparasse o si tenessero i collegamenti.
Scrive Marisa Ombra: “Avevamo fatto il gran salto materiale, dall’ordinata vita quotidiana in famiglia a quella spericolata e massimamente incerta della guerra. Dalla tradizione della ragazza in attesa di marito alla trasgressiva esistenza in mezzo a bande di ragazzi in guerra. In guerra noi stesse.[…] Una sconfinata libertà stava davanti a noi e il nostro entusiasmo, la nostra ingenuità ci conducevano verso fantasie in cui altri mondi, altri rapporti, altri sensi  da dare alla vita ci apparivano come certezze. […] c’era stato il capovolgimento del nostro mondo”. 

Dai gruppi di difesa della donna alle volontarie della libertà.

Ma tutto questo doveva anche fare i conti con il senso comune dell’epoca, con la visione puritana e patriarcale che sottendeva la concezione che la società aveva della donna. E che in massima parte anche le donne avevano di sé stesse. Un portato che non rendeva semplici le scelte che questo impegno comportava. Molto spesso era difficile per le donne farsi accettare nelle bande maschili, come pure  vivere in promiscuità con i compagni di lotta. Tant’è vero che nel luglio 1944, a consacrare la partecipazione femminile ai gruppi armati, i Gruppi di difesa della donna costituiscono le formazioni di Volontarie della libertà, destinate alle azioni militari e composte esclusivamente da donne. 
Si intendeva così da una parte aggirare le resistenze maschili ad ammettere donne in banda, dall’altra superare le eventuali riserve di molte ragazze ad avventurarsi in esperienze  troppo promiscue. Ma si intendeva anche fornire  la  dimostrazione pratica  che le donne potevano fare, da sole, tutto quello che facevano gli uomini. Le Volontarie della libertà partecipano ad azioni militari d’impatto, come la liberazione di feriti e prigionieri, i sabotaggi delle fabbriche che supportano lo sforzo bellico dei nazifascisti, le interruzioni delle vie di comunicazione (fanno saltare i ponti, tagliano i fili del telegrafo, spargono chiodi lungo le strade camionabili, rimuovono i pali indicatori tedeschi). 

La delusione. La mentalità patriarcale non era stata superata.

La Resistenza delle donne si declina, dunque, sia con le armi sia senza armi: due modalità che non sono separabili, che sono concepite all’interno di una scelta comune, che rendono ragione – tra l’altro – della vittoria della Resistenza. Due modalità che hanno per unico fine la libertà e la pace. La gioia per la vittoria e per la fine della guerra si mescola però subito al rimpianto. È ancora Marisa Ombra ad accompagnarci alla conclusione di questa stagione unica e irripetibile: “Finiva per noi ragazze la trasgressione, la nostra vita non sarebbe stata mai più straordinaria”. La mentalità patriarcale non era mai stata superata, come non erano mai stati superati  i valori tradizionali che il fascismo stesso aveva  ribadito e inculcato ulteriormente  nel corso del ventennio.

Ecco che allora la spinta possente per ricacciare le donne entro i confini angusti dei ruoli consueti si manifesta subito. Scrive Ada Gobetti: “Confusamente intuivo che incominciava un’altra battaglia, più lunga, più difficile, più estenuante anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza -facili da individuare  e da odiare – ma contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti. E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi.” 

Le partigiane spariscono dalla narrazione. Cose da uomini.

L’esperienza della Resistenza femminile, seppure mai disconosciuta del tutto, è, come scrive Benedetta Tobagi, “come ‘evaporata’, ridotta ai medaglioni di poche figure esemplari o al riconoscimento della semplice funzione ancillare, comunque sottratta alla sua dimensione popolare e di massa, nonché alla pericolosità dei compiti svolti dalle partigiane.” Spesso le partigiane vengono addirittura escluse  dalle celebrazioni ufficiali, che sono e rimangono ‘cose da uomini’. Ma l’aspetto più grave, e deplorevole di tutto questo è che sono proprio le modalità della lotta dei partigiani e delle partigiane combattenti,  la inevitabile promiscuità della vita in bande a dare origine allo stigma vergognoso da cui molte di queste donne vengono segnate. 

L’eroe maschio, protagonista assoluto del racconto.

Indicatore di un senso comune ancora profondamente misogino, patriarcale e moralista, allora come in parte ancora oggi. Ma questo richiederebbe un discorso a parte. Nella marea montante dell’antifascismo del dopoguerra campeggia esclusivamente  la figura dell’eroe maschio combattente, protagonista assoluto del racconto della Resistenza. Per decenni le donne restano escluse dalla storia, complice anche il fatto che i testimoni di sesso maschile, quando raccontavano le imprese eroiche compiute dalle compagne, a cui spesso dovevano la vita, non sapevano i loro nomi. La fine del fascismo e della guerra non ha purtroppo determinato quella radicale trasformazione della società che avrebbe dovuto interessare anche la concezione tradizionale e la condizione  della donna. 

La lunga marcia delle militanti antifasciste.

Negli anni ’70 del secolo scorso,  le partigiane più sensibili alle istanze del ’68 e dei movimenti sono consapevoli che certe domande premevano a quelle che, dopo aver lottato e partecipato fattivamente alla Liberazione,  si erano  sentite respingere ai margini della vita politica, rinchiudere nel ghetto del privato ritrovandosi, come donne, più indietro di prima. Queste domande devono essere, oggi come allora, anche quelle di innumerevoli donne, giovani e vecchie militanti di un esercito che ha raccolto vittorie e sconfitte ma che ha ancora tanto cammino da fare. C’è di fatto una continuità tra la lunga marcia delle militanti antifasciste e la volontà di liberazione scaturita dalle nuove generazioni negli anni ’60 -’70 del secolo scorso.
E allora dobbiamo essere noi, con la memoria, lo studio, la riflessione critica e il desiderio di rivolta, a contribuire a scrivere la storia. Secondo uno sguardo diverso, che non escluda ma al contrario faccia propria l’importanza della presenza e dell’azione delle donne nei passaggi cruciali della Storia. E la Resistenza è senza dubbio uno di questi passaggi. È perciò necessario valorizzare il protagonismo femminile nella storia,  a partire dall’antifascismo e dalla nascita della nostra Repubblica e trasferirne la memoria alle nuove generazioni.

La Liberazione dentro la Liberazione.

È necessario “rileggere” le vicende storiche secondo un’ottica che dia il giusto valore all’impegno civile e politico delle donne, al loro ruolo reale e fattivo nella Resistenza che troppo a lungo, a livello storiografico e istituzionale, è stato relegato a un ruolo secondario, quando non addirittura taciuto o misconosciuto. Come scrisse Ada Gobetti : “Nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento, costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile, il tessuto sotterraneo della guerra partigiana.” Liberazione dentro la Liberazione, quindi, dentro l’anima e nel mondo. È questa la cifra della Resistenza delle donne. 

*Maria Grazia Greco, Direttivo Anpi Sezione Elio Farina, Roma