Questo romanzo è un crudo affresco familiare di un gruppo che si dipana per quattro generazioni senza sciogliere l’inesprimibile disagio che viene tramanda tra loro.
Il legame di sangue è l’unica certezza che collega storie tanto diverse tra loro, nuclei mai ricomposti che si sfaldano per il mondo, vite che si rincorrono e temono l’incontro.
Con una tecnica narrativa molto forte e trascinante si attraversano le vite dei personaggi con le loro particolarità e idiosincrasie, e se ne adotta il punto di vista per penetrarne la psicologia.
Tutto ha inizio durante una tappa del Tour de France all’epoca di Coppi e Bartali quando Zaro, un meccanico di biciclette, al seguito di Bartali, ha un’avventura con una cameriera di albergo che si ripresenta al suo paese con la figlia Isabelle, dieci anni dopo. Zaro che nel frattempo si è formato una famiglia e ha moglie e figlio non vuole saperne delle due che però rimangono a vivere a Ponte a Ema, un piccolo centro vicino a Firenze. Non stupisce allora che l’autrice, Erika Bianchi, classe 1975, sia nata e cresciuta in Toscana. Questo è il suo secondo successo.
Dell’iniziale rifiuto paterno (che equivale a un non-riconoscimento anche identitario) che Isabelle sperimenta bruciante sulla sua pelle, porterà impresso il marchio nella sua vita da adolescente prima e da donna poi, collezionando una serie di fallimenti come moglie e come madre.
Le due figlie di Isabelle, Marta e Cecilia pagheranno il prezzo della mancanza di una figura materna presente e affettuosa scontandolo con vite disturbate e disordinate.
Marta conduce una vita molto libera alla ricerca di continue gratificazioni e si ritrova ragazza-madre; Cecilia esprime il suo rifiuto verso la madre rifiutando di nutrirsi e facendo guerra a se stessa e agli altri…
Perché non possiamo essere come le lucertole che mondano il loro corpo dal male tramite l’arto amputato e si rigenerano per avere una nuova possibilità? Questa è la domanda che rivolgono al padre le due ragazzine, dopo essere state abbandonate dalla madre che ha preferito tornarsene in Francia.
Vedi, papà, io penso che noi siamo proprio il contrario delle lucertole. Perché il pezzo di coda che abbiamo perso, a noi non solo non ci ricresce, ma continua a farci male.
In questa constatazione amara risiede il nodo insolubile di tutta la vicenda che sfocia nel dramma con l’anoressia di Cecilia.
Impressionanti la lucidità e la precisione con cui vengono analizzate le sfaccettature psicologiche di questo disturbo alimentare: la spirale senza ritorno tra senso di colpa e fame vissuta in prima persona da Cecilia e cui assistono impotenti i suoi familiari.
Il tutto ci viene raccontato con una tecnica narrativa molto efficace e tachigrafica che non indugia in considerazioni e approfondimenti, preferisce non descrivere sentimenti e stati d’animo ma mostrarli direttamente nella loro crudezza. La scena si apre sul funerale di Zaro e ripercorre a ritroso le rispettive storie dei protagonisti che loro malgrado si sono incontrate. Come tessere di un mosaico che è stato distrutto, spazzato via in mille pezzi e ora dev’essere pazientemente ricomposto.
Uno stile crudo e asciutto, un risvolto agghiacciante all’origine di tutto; non può assolutamente esserci un lieto fine.
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L'ha ribloggato su I piaceri della letturae ha commentato:
Quattro generazioni, un mosaico andato in frantumi da ricomporre, il rifiuto e l'abbandono sono ferite da cui gli esseri umani non guariscono.
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