Per sei anni ho fatto la commessa in un negozio che vendeva svariati articoli, dall’abbigliamento alla cartoleria, persino giocattoli, passando per la biancheria intima. Questo mi ha sicuramente dato la possibilità di muovermi e di saper gestire tutte quelle richieste che ogni giorno mi si presentavano, anche quelle al limite del surreale. Quello che però ancora non mi spiego, o meglio quello che ancora mi sto domandando da sei lunghi anni senza trovare alcuna risposta ,– e questo mi fa pensare che oltre al dogma della Santissima Trinità si possa includere anche questo quesito – è cosa porti un comune essere umano dal quoziente intellettivo medio, a regredire allo stato neonatale una volta varcato l’ingresso di un negozio. Fatto sta che, all’improvviso, la povera commessa si ritrova in un surreale girone dantesco pieno di creature che scodinzolano nel locale alla ricerca di qualcosa e, non contenti, richiedono l’assistenza della poverina di turno che, ad un certo punto, preferirebbe soffrire le peggiori torture all’interno della Torre di Londra piuttosto che affrontare certi personaggi.

I mammoni sono la categoria più tenera di questa lunga carrellata di gruppi che ogni giorno testano la pazienza dei poveri commessi i quali, al limite della disperazione, invocano la mitologica pazienza di Giobbe. Il mammone o la mammona di turno è un soggetto subdolo, all’apparenza normalissimo- il classico cliente medio che entra, osserva, forse compra ed esce- ma che in realtà nasconde una natura nefasta che viene identificata quando ormai è troppo tardi e la commessa non sa più a quale santo rivolgersi ed inizia a pensare seriamente alla possibilità di chiedere un appuntamento all’amico psicologo, perché le farà uno sconto sulla costosissima seduta che altrimenti avrebbe quasi lo stesso valore di un paio di scarpe di Manolo Blahnik. Eppure dopo anni a contatto con la clientela dovremmo riconoscerlo lui, il mammone, colui che va in giro con il colletto della camicia che sembra essere stato ritagliato da una forma di cemento, tanto è l’appretto che la sua vetusta madre è ancora solita usare. O il gilet anni Settanta, realizzato in lana e con colori che non s’abbinano nemmeno con l’asfalto. E invece niente, questa è quella categoria che per chiunque rimane un mistero, non riesci a riconoscerla e nemmeno a contrastarla. Non esistono vie di fuga tanto che Daniele Bossari potrebbe girarci sopra una puntata di “Mistero”.

Ed è così che la commessa è costretta a tirare fuori tutto quello che ha elencando le caratteristiche, cercando le taglie anche nel magazzino stracolmo di roba, pieno zeppo come l’armadio di Rebecca Blomwood, l’eccentrica protagonista manibuche di “I love shopping” di Sophia Kinsella. La commessa ce la mette proprio tutta ma nulla può quando quell’essere curioso davanti a lei chiude la partita con la seguente frase «Guardi, la ringrazio, ma voglio prima chiedere un consiglio a mia madre. Posso fare delle foto ai capi?»

Ecco, questi sono i momenti in cui tu vorresti che un asteroide centrasse l’esatto punto dove il cliente è posizionato, che un ladro entrasse e prendesse lui come ostaggio, che sua madre lo chiamasse in quel preciso istante e lo diseredasse. Sarebbe fantastico ma si sa che la fortuna non ride ai poveracci. Il colpo di grazia ti arriva, però, quando ormai convinta che quella sia una razza esclusivamente maschile che avvalori l’universale teoria dell’italiano maschio attaccato alla gonnella della genitrice, ecco arrivare l’esemplare femminile.

Chiedere consiglio è importante, lo riconosco, a volte ci evita di fare scelte decisamente infelici ma non si può vedere uno o una che ha bisogno dell’ausilio della mamma per la taglia del boxer o del perizoma. Ogni volta che mi trovavo davanti ad una scena del genere il mio occhio iniziava un leggero tremolio, tipo un tic che, magicamente, è svanito quando ho smesso di essere una commessa. Quelli sono i momenti in cui ringrazio mentalmente mia madre per avermi lasciata libera ad una certa età di fare i miei acquisti in solitaria, senza intromettersi troppo, anche a costo di farmi arrestare per abbigliamento ed accostamento illegali. Chi di voi, essendo stato un infante tra gli anni ‘80 e ‘90, non ha qualche fotografia dove il gusto per la moda sembrava essersi suicidato? Bene. E’ per questo motivo che io sono sempre stata favorevole all’autogestione. In tutti i sensi.

Ma per far meglio comprendere questo tipo di cliente farò un paio di esempi. Realmente accaduti e così sarà per tutte le altre tipologie. Ripeto, tutti gli esempi che narrerò sono fatti realmente accaduti anche se vi sembreranno degli incontri ravvicinati del terzo tipo.

 

1)Cliente: «Buongiorno signorina, potrebbe aiutarmi? Dovrei acquistare una cintura da mettere sui jeans tutti i giorni. Qualcosa di informale ma non troppo sportivo.»

Io: «Certo! Qui abbiamo un vasto assortimento di modelli economici. Se cerca altro, anche a livello qualitativo, di là ho delle cinture di marca della Charro, Emporio Armani, Gianmarco Venturi.

E così, dopo una buona mezz’ora e dopo aver fatto vedere qualcosa come tipo 500 modelli di cinture dai mille colori e essermi avvolta come un salame stagionato intravedo, forse, un bagliore negli occhi del ragazzo. Forse ce l’abbiamo fatta. E invece no.

Cliente: «Guardi, sono indeciso e non vorrei sbagliare. Stasera chiedo a mia madre ed eventualmente ritorno domani. Arrivederci e grazie!»

Io: (nella mia mente) «Spero ti cadano i calzoni!»                                                                                               (nella realtà) «Ma si figuri. Alla prossima!»

 

2) Io: «Signorina posso aiutarla?»

Cliente: «Sì, sto cercando un paio di pantofole per l’inverno. Qualcosa di economico però.»             Ecco, speriamo di uscirne viva visto che la signora accanto a lei, sua madre, ha già iniziato a scartare non so quanti modelli appesi su 4 metri di parete. Pensate che siano tanti modelli? Certamente sì, ma non per il cliente. Per lui non è mai abbastanza. I modelli si susseguono uno ad uno, come soldatini cadono giù e restano a terra mentre il piedino fatato della fanciulla li calza mentre io mi ritrovo immersa tra una serie di animali fantastici e pelosi che rallegrano il design delle pantofole nelle più svariate rappresentazioni. Si passa dal gufo strabico alla giraffa con le guance rosse in stile Heidi fino ad arrivare ad un essere che sembra uno strano incrocio fra un tacchino ed un lama tibetano. Almeno credo.

Cliente: «Mamma, che ne pensi? Questa potrebbe andare bene?»

Potrebbe? È tipo un’ora che sono qui e anche se in realtà sono solo venti minuti a me sembrano un’eternità. La parete delle pantofole sembra sia stata sventrata da una granata con i pezzi che ora giacciono al suolo così come la mia speranza di riuscire a concludere la vendita nel giro di poco.

Cliente: «Allora mamma? Dai su dammi un aiuto. È una scelta difficile!»

Eh già, proprio una scelta difficile capire quale pantofola ti verrà voglia di lanciare la mattina al dolce suonar della sveglia mentre con un’espressione che sembra sapientemente rubata al conte Dracula, la suddetta pantofola diventata un oggetto radiocomandato, per sua sfortuna, si scontrerà contro la parete. Oppure verrà usata, perché noi italiani siamo creativi, come la versione moderna dell’ammazzamosche.

Madre: «Tesoro, dici questa qui rosa con inserti celesti? Non credo vada bene, aspetta che ripenso un attimo ai pigiami che hai.»

Cliente: «Dici che non si abbinano?»

Madre: «mmm…no! Hai un pigiama di un verde, né chiaro e né scuro. Poi ne hai uno rosso ma che è un po’ sbiadito ed un altro grigio con inserti rosa.»

Cliente: «Allora ci vanno bene queste pantofole qui.»

Madre: «Eh no…perchè gli inserti sono celesti, poi fai troppi colori e con gli altri pigiami lasciamo stare. Vero signorina? Glielo dica anche lei.»

La mia faccia è tutto un programma, un misto fra disperazione e rassegnazione. La signora cerca combinazioni cromatiche ottimali perché lei sì che sa vestire. Collant blu, gonna fucsia e cappotto nero con sciarpa color senape fanno di lei la cugina insperata di Donatella Versace, ardita nell’abbinare colori che, normalmente, fra loro si respingono per legge naturale.

Io: «Certo signora, anche se visto e considerato che il pigiama lo si mette solo la notte, azzarderei con queste pantofole.»

Cliente: «Mamma quindi dici di no?»

Madre: «No tesoro. Andiamo a casa e vediamo bene che pigiami hai e poi torniamo e facciamo l’abbinamento. Ok?»

Cliente: «Ok! Allora signorina magari ripassiamo. Grazie.»

E sono questi i momenti in cui nasce  un istinto omicida pari a quello di Jack Lo Squartatore, ma il fatto di non sapere dove poter nascondere i cadaveri diventa motivo di rassegnazione per me che ancora sto cercando di capire se la tizia usa le pantofole anche per uscire.