23 Maggio 1992 la mafia uccide con un ordigno esplosivo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anch’ella magistrato, e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. 19 luglio 1992 la mafia uccide con un ordigno esplosivo il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Cinquantasette giorni tra un attentato e l’altro. Negli ambienti giudiziari e non solo sapevano che dopo Falcone anche Borsellino era nel mirino di cosa nostra, ma nulla venne fatto per evitarlo. Quando accadono fatti di tale portata il quesito che affiora sulle labbra dei più è: “Dov’era lo Stato?”. Questa domanda che ha un sapore quasi ancestrale nel nostro Paese l’ho rivolta al fratello di Paolo Borsellino, Salvatore Borsellino, che da quel 19 luglio 1992 ha cambiato radicalmente modo di vivere, votandosi alla stessa causa di Paolo: combattere la mafia per sconfiggerla. Paolo ha cercato di farlo attraverso il suo lavoro di magistrato, Salvatore fondando il Movimento delle Agende Rosse e portando la sua testimonianza nelle piazze prima e ora anche nelle scuole, perché la mafia si può estirpare.
Buongiorno dott. Borsellino, prima di tutto grazie per averci concesso questa intervista. Partiamo dallo Stato. Dov’era quando uccidevano Giovanni Falcone prima e suo fratello poco dopo? Dov’era quando altri servitori dello Stato perivano per mano mafiosa?
Non c’era, purtroppo questa è la realtà. La lotta alla mafia, alla criminalità organizzata dovrebbe essere una lotta corale: magistrati, forze dell’ordine, politica. Invece quest’ultima è stata sempre latitante, lasciando soli i magistrati e le forze dell’ordine che dovrebbero avere il compito di reprimere i reati mafiosi, ma seguendo leggi sancite e promulgate dallo Stato. Tutto ciò non avviene, basti pensare al carcere ostativo, al 41bis, provvedimenti voluti strenuamente da magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma non supportati dalla politica. Si può dire che da sempre i programmi dei vari governi che si sono succeduti mai hanno messo al primo posto la lotta alla criminalità organizzata, a volte non compare nemmeno questa voce. Invece dovrebbe essere sempre in cima alla lista, anche forse prima del Covid-19, di questi tempi. Perché la mafia è un cancro che da sempre condiziona la vita civile di tutti noi.
A suo dire c’è una spiegazione per questa latitanza?
Sì, c’è. La politica ha sempre convissuto con la mafia. Ricordo che a Palermo, quando ero un ragazzo, la politica andava a braccetto con la mafia. Il sindaco Vito Ciancimino era un democristiano, ma era anche un mafioso. La politica è sempre riuscita a trovare il modo di impiegare le organizzazioni mafiose per poter alimentare i propri centri di potere, ampliare la sua base elettorale e renderla suddita. Non dimentichiamo che Giulio Andreotti, considerato quasi un padre della patria, è stato prescritto dai suoi reati di collaborazione con la mafia; i più pensano che sia stato assolto, invece è stato prescritto. La differenza è sostanziale. È accertato che fino agli anni Ottanta avesse tessuto rapporti stretti con cosa nostra, ma questo reato era caduto in prescrizione. Prescrizione che a mio avviso non dovrebbe mai valere per i reati di mafia.
Da quegli anni Novanta a oggi come è cambiata la mafia, vi è stata un’evoluzione nel modo di agire, di rapportarsi con la società civile e le istituzioni.
La mafia non si ferma mai, non ha momenti di staticità. Cambia strategia a seconda dell’obiettivo che vuole raggiungere. La mafia è passata dall’essere condotta dai corleonesi con a capo Totò Riina che aveva come idea di strategia quella stragista: attaccare lo Stato per poi fare la pace e trovare una tregua che potesse soddisfare tutte le parti. Per lui questo significava trovare sempre nuovi referenti politici con cui dialogare. Per anni il referente principale era stata la Democrazia Cristiana, ma alla fine degli anni Ottanta i tempi stavano cambiando, il mondo politico stava perdendo i suoi punti saldi, si stava sfilacciando dando campo libero a più compagini politiche. Dopo decenni in cui la DC aveva tenuto banco al governo aiutando così la mafia ad avere rapporti e referenti solidi, cosa nostra aveva necessità di capire a chi rivolgersi e di ripristinare rapporti stabili anche voltando le spalle agli “amici” di una vita. Questo fu chiaro quando nel 1992 in un certo modo impedì a Giulio Andreotti di sedere sullo scranno più alto, quello del Presidente della Repubblica, assassinando Salvo Lima, vice re in Sicilia dello stesso Andreotti. Dopo Riina la conduzione della cupola mafiosa passò nelle mani di Bernardo Provenzano che da sempre invece prediligeva muoversi sottotraccia, in sordina, ma questo non gli ha mai impedito di portare avanti i suoi loschi affari anche con pezzi grossi dello Stato. Ed è stata questa scellerata trattativa tra Stato e mafia che ha condotto alla morte mio fratello. Con Giovanni e Paolo vivi la mafia e lo Stato non avrebbero potuto andare avanti insieme, io di questo ne sono più che convinto. Dopo Giovanni e Paolo le stragi non si fermarono: cosa nostra doveva consolidare la sua posizione, far capire che sarebbe stata lei a dettare modi e tempi di azione. Arrivarono gli attentati alla Basilica di San Giorgio al Velabro, a San Giovanni in Laterano, in via dei Georgofili, in via Palestro. Solo dopo l’annullamento dell’attentato allo Stadio Olimpico a Roma, che era già pronto nei più piccoli dettagli, le stragi cessarono, ma non per bontà della mafia o pugno duro dello Stato, semplicemente perché le trattative tra loro si erano concluse, e mafia e Stato erano arrivati a un compromesso. Ma le trattative le aveva condotte cosa nostra che di fatto fece capire che con lei non si può trattare, si può forse solo prendere atto.
Quindi tra Stato, o comunque una parte di esso, e mafia un sodalizio c’è ancora?
Ritengo di sì, a mio avviso si stanno ancora pagando cambiali nate da quella trattativa, ancora dopo trent’anni. Nel presunto papello di Riina, perché quello ritrovato probabilmente non è l’originale, sono riportati i punti salienti di ciò che la mafia voleva e richiedeva allo Stato, ci sono anche punti precisi in cui si parla di ciò di cui si sta discutendo nel presente: abolizione del carcere duro, abolizione del 41bis, smobilitazione della legislazione sui pentiti. Tutte richieste che oggi qualcuno vuole pagare, così da smantellare la legislazione necessaria per combattere questa guerra, perché la lotta alla mafia è una guerra, non vi sono altri termini per definirla. Tutto ciò che era stato posto in essere da Falcone e Borsellino per poter combattere la mafia, come anche la legge voluta da Pio La Torre, quella che va a colpire gli interessi della criminalità organizzata, potrebbe essere smantellato, annullato, e invece dovrebbe avvenire l’esatto contrario, bisognerebbe perfezionarle, renderle ancora più fattive e incisive.
Il dibattito sull’abolizione del carcere ostativo così come del 41bis è particolarmente acceso e sono molti i magistrati che sottolineano come, se queste revisioni diventassero realtà, la magistratura avrebbe di fatto le mani legate, lasciando campo libero alla mafia.
Accadrebbe proprio questo. Queste leggi erano state volute proprio per aprire una breccia nell’omertà mafiosa. Solo così è stato possibile arrivare ad avere dei collaboratori di giustizia, chiamarli pentiti è sbagliato, questi sono veramente pochi, la maggior parte accetta per avere degli sconti di pena. I collaboratori sono stati preziosi per conoscere i meccanismi interni, le gerarchie, la macchina mafiosa nella sua capillarità. Se quest’arma formidabile venisse spuntata ricadremmo nell’incertezza e nel buio dentro il quale la mafia potrà solo che crescere.
L’opinione pubblica, l’informazione potrebbero riuscire nell’intento di far pendere l’ago della bilancia dalla parte di una scelta di continuità con il lavoro svolto da Falcone e da Borsellino, qualora si arrivasse a prendere seriamente in considerazione l’idea di smantellare leggi fondamentali per la lotta alla mafia?
Gli italiani hanno perso due grandi giudici che se fossero ancora vivi sicuramente avrebbero cambiato le sorti della storia sociale italiana. Certo che l’opinione pubblica e l’informazione possono giocare un ruolo importante, la politica ha bisogno di consenso e di voti, senza questi può fare ben poco.
Lei ormai da diverso tempo porta il suo impegno contro la mafia nelle scuole, andando a raccontare di suo fratello, delle sue lotte. Come si pongono i ragazzi rispetto ai suoi racconti.
Sì, ho deciso di rivolgermi alle giovani generazioni perché ritengo che loro abbiano tutte le carte in regola per poter ascoltare e farsi una propria opinione senza costrizioni e senza sovrastrutture mentali che per causa di forza maggiore un adulto porta con sé. Anche mio fratello credeva fermamente nei ragazzi, tanto che durante gli ultimi giorni di vita erano loro i suoi interlocutori principali, nei quali riponeva un’enorme fiducia e speranza. Pensi che proprio il giorno che è stato ucciso, poco prima, aveva affermato di essere ottimista per il futuro. Io condivido la visione di Paolo: i ragazzi sono la speranza e l’ottimismo. Quando vado a parlare nelle scuole l’attenzione che trovo è sempre massima, credo che potrei parlare per giornate intere, ma non vi sarebbero distrazioni. Purtroppo nell’ultimo anno non ho potuto incontrarli di persona e questo mi ha tolto molto, ma non mi sono fermato e trovo sempre una grande partecipazione e coinvolgimento. Inoltre cerco di creare una “memoria”, come tendo a dire io: all’epoca dei fatti che racconto loro non erano nemmeno nati, dunque è importante che conoscano questa storia più recente per poter capire il proprio presente, le dinamiche che hanno portato al contesto attuale. Da quando è nato il mio movimento, Agende Rosse, le persone che vi sono approdate sono aumentate enormemente e moltissimi di loro sono giovani. Alcuni li ho conosciuti ragazzini e oggi sono magistrati o in procinto di esserli. Certo non è necessario entrare in magistratura per combattere fattivamente la criminalità organizzata, la si può e si deve combattere anche da semplici cittadini facendo ognuno la propria parte, forse solo così riusciremo a evitare che uomini perbene che stanno solo svolgendo il proprio lavoro diventino eroi loro malgrado.
Dott. Borsellino, senza volerlo, attraverso i suoi racconti abbiamo ripercorso una parte della storia italiana più recente che però nelle scuole non viene nemmeno sfiorata. Quanto invece sarebbe importante, indispensabile che il programma ministeriale prendesse in considerazione la seconda parte del Novecento.
Ha detto bene, sarebbe indispensabile. Ho due nipoti che quest’anno hanno affronteranno la maturità, mi hanno detto di essere arrivati alla caduta del muro di Berlino e pare sia già un bel traguardo. Purtroppo per molti la storia finisce con la Seconda Guerra Mondiale di cui spesso non si affronta nemmeno il dopo, le conseguenze. Per esempio, nessuno fa menzione ai ragazzi di quello che invece è stato raccontato finalmente per la prima volta in una pellicola di Pif, In guerra per amore. Qui si descrive molto bene come la mafia venga ripristinata e legittimata da quell’esercito americano che avrebbe dovuto liberare l’Italia dal giogo fascio-nazista, ma di fatto fornirà gli strumenti per aggiogare il sud alla criminalità organizzata e alla politica a essa collusa. Certo questo è accaduto in tempo di guerra e gli Stati Uniti si sono serviti dei mafiosi per poter conquistare senza problemi prima la Sicilia e poi l’intera penisola, purtroppo dopo la fine della guerra e nei decenni successivi nessun governo è intervenuto per rimuovere dai posti chiave gli uomini della criminalità, anzi si è creato quel sodalizio di cui abbiamo fatto cenno prima. Forse oggi il nostro Paese sarebbe ben diverso. Tutto questo andrebbe sì studiato: la mafia è un cancro nato e sviluppatosi al sud, ma poi il tumore, lasciato proliferare, ha dato vita alle metastasi, le quali si sono moltiplicate andando a inondare anche il continente, come chiamiamo noi siciliani la penisola. Ma la mafia si può estirpare.
Ora vorrei tornare a quel giorno di ventinove anni fa, molti, anche tra i giornalisti, lo ricordano per un qualcosa che è accaduto loro, per una sensazione che si è come cristallizzata nella loro mente e prima fra tutte rimanda a quella giornata. Anche lei ha un ricordo cristallizzato, fermo a quella data?
Ha ragione, con il mio movimento giro parecchio e ho avuto modo di parlare con molte persone e ciò che dice è assolutamente vero. Anche a me è accaduta la stessa cosa, e la paragono a ciò che è successo all’orologio della stazione di Bologna, quando le lancette, a causa dell’esplosione, si sono fermate sull’ora esatta di quel meschino attentato. Ricordo la voce di mia moglie che mi chiama, era domenica mattina e nonostante questo stavo lavorando su uno dei primi computer arrivati in Italia. Lei mi dice di correre a sentire la notizia: c’è stato un attentato a Palermo. Da quel momento la mia vita è completamente cambiata, c’è una cesura, un punto di non ritorno. Poi ricordo il mio viaggio in aereo, l’arrivo a tarda notte a Palermo e la telefonata di mia madre dall’ospedale dove era stata portata, che mi dice: “Tuo fratello è morto”. Quella voce è ancora qui nella mia mente, chiara, inconfondibile. Inconsciamente dall’annuncio di mia moglie avevo già capito ciò che era accaduto, quello che da cinquantasette giorni attendevamo. Sino a quando non sono arrivato sul luogo dell’attentato e i testimoni non mi hanno raccontato del caos, dei corpi dilaniati e fatti a pezzi, il mio pensiero era stato solo per Paolo e il suo essere stato lasciato solo ad attendere una morte che per noi tutti era annunciata. Il 19 luglio sarà il giorno dell’anniversario di quell’attentato annunciato, ma non voglio sentire parlare di commemorazioni. Non si può ricordare una volta all’anno quanto è successo e poi farlo cadere nell’oblio per altri 364 giorni. Per questo motivo ho deciso che il ricordo di quel giorno dovrà prolungarsi per tre mesi, dall’1 maggio sino all’ultimo giorno di luglio. Durante il periodo saranno istituite le “scorte della memoria”: ogni ragazzo indosserà una pettorina rossa con impresso sopra il nome di ogni ragazzo che era insieme a Paolo quel giorno proprio lì in via D’Amelio, e ognuno di loro presidierà l’ulivo, fatto arrivare direttamente da Betlemme, che mia madre fece piantare nella buca che la bomba esplodendo aveva causato. L’ulivo per mia madre doveva rappresentare un simbolo di speranza e di rinascita, è così anche per noi.
Dott. Borsellino ascoltandola ho avuto come la sensazione che la sua grande forza, il suo parlare chiaro senza tentennamenti scaturisca proprio da questa grande perdita.
Credo anche io, come ho detto, quel giorno è cambiata completamente la mia vita. Ho subito capito che avrei dovuto proseguire il lavoro iniziato da mio fratello e mia madre lo ribadì a me e mia sorella Rita, che comprese quanto me che dal giorno prima per noi era iniziava una nuova fase, una sorta di rinascita, tanto da scriverci anche un libro, Nata il 19 luglio. Mia madre, il giorno dopo la strage, quando ancora aveva nelle orecchie il suono di quel boato spaventoso causato dall’esplosione, ci chiamò e ci fece promettere che saremmo andati ovunque ci avrebbero chiamato, avremmo battuto palmo a palmo il Paese, il sogno di Paolo doveva essere portato avanti. Per anni lo abbiamo fatto tutti insieme, ora sono rimasto solo, ma questo non mi impedirà di proseguire la mia lotta.
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