Daniela Poggi, una donna in cammino, alla continua ricerca, una donna che cammina coi piedi scalzi per le vie del mondo cercando di carpire la verità, di stare in comunione con il resto dell’umanità.
Daniela Poggi svela qualcosa di sé alle lettrici del Pink, ripercorrendo in parte la sua carriera e lanciando un messaggio universale che, dopo la prova della pandemia, dovremmo deciderci a comprendere.
Ha un ruolo o un film per cui prova nostalgia e che sente, in qualche modo, ancora dentro?
Sicuramente il ruolo in cui ho potuto esprimere me stessa al mille per mille è stato L’Esodo di Ciro Formisano, pellicola del 2015.
E il personaggio teatrale, tra i tanti, di cui ha indossato con piacere le vesti?
Emily Dickinson, sicuramente. Dopo l’esordio, avremmo dovuto proseguire nella stagione del 2020 ma purtroppo, a causa della pandemia, tutto si è bloccato. Non è questo uno spettacolo che può essere fatto all’aperto per come è costruito, con le luci, con le grafiche particolari che appaiono sul palcoscenico, per i silenzi e le pause che si devono creare. Quindi, purtroppo, questo spettacolo ha patito maggiormente l’emergenza covid-19. Dobbiamo dunque aspettare la stagione prossima, sperando che si possa fare da ottobre in avanti.
Come è la sua Emily?
È una donna a tutto campo. Abbiamo cercato di raccontarla attraverso le sue molteplici personalità, costruendo attraverso i testi di Valeria Moretti un percorso da una Emily più giovanile e più entusiasta a una Emily che si rende conto di quello che sta succedendo attorno a lei. È una Emily che si concede e che si nasconde, che si offre ma si nega allo stesso tempo. Le sue poesie sono parti integranti di tutto il testo. Lo spettatore potrà vedere una giovane donna con i suoi umori, con i sogni, le sue aspettative e anche la sua ilarità, il suo sarcasmo, l’essere bambina e, delle volte, anche spigolosa.
Non solo Emily ma in scena avete portato anche altre donne forti…
Ho interpretato in La sciarpa di Isidora la ballerina Isadora Duncan e poi la fotografa Tina Modotti in Perché il fuoco non muore di Francesco Niccolini. Clitemnestra in Agamennone con Paolo Graziosi e Infine anche Medea, di Grillparzer nell’omonimo spettacolo. Lavorare su personaggi così forti è l’ideale per un’attrice perché oltre a mettere in scena la forza e il coraggio per affrontare la vita si mette in scena anche la fragilità e la scomodità di quelle identità. Non c’è soltanto la forza che appare ma dentro ci sono sempre cuori che sanguinano, tante ferite, tante sofferenze, quindi è molto bello lavorare sulla complessità del personaggio. Tutte e quattro sono donne uniche nella loro esistenza e nella loro professione. Sono ruoli che mi piacerebbe continuare a portare in scena, anche se serve tanta forza fisica per affrontare determinati personaggi. La stessa Emily necessita di una forza fisica particolare, essendo sola in scena. Avere la capacità dunque di passare da uno stato emotivo all’altro richiede una abilità di concentrazione che delle volte, portandosi dietro tutta una giornata, diventa anche faticoso.
Come è stato passare dall’altra parte, ovvero rivestire il ruolo di regista?
Mi piace tantissimo perché mi piace lavorare sulla psicologia dell’altro, scandagliare l’animo altrui che è un lavoro che faccio anche nei personaggi che interpreto. Con l’altro si scoprono le fragilità, i silenzi, tutti i bui che abbiamo. Il lavoro dell’attore o del regista è un lavoro psicologico, una continua profonda analisi. Un vero regista è colui che conosce molto bene la psiche umana e vuole rafforzarla attraverso i suoi personaggi. Per i miei cortometraggi, su come realizzarli, avevo le idee molto chiare fin da subito.
La vedremo mai dirigere anche un lavoro teatrale?
Non saprei. Forse sono più portata alla regia visiva, per immagini, piuttosto che per la scena. Ho fatto dei laboratori in cui, con l’aiuto di un regista, abbiamo elaborato la regia insieme però nell’assumermi la responsabilità di tanti attori avrei qualche difficoltà. Forse potrei cimentarmi nella regia di un monologo. Ma never say never!
Ricordami! è il suo libro. Da dove è nato il bisogno di scriverlo?
Nel 2008 ho scritto un recital Io, madre di mia madre sull’esperienza di mia madre. Lei era lì vicino a me mentre cercavo di capire che tipo di progetto portare a un festival e ho capito che il progetto era esattamente quello. Raccontare questa malattia, l’Alzheimer, gli stati d’animo, le emozioni e quindi è venuto fuori un recital teatrale con musica dal vivo. Questo recital l’ho tratto dai due libri di Tahar Ben Jelloun e Simone De Beauvoir ai quali ho aggiunto dei brani miei. Alla fine, dopo tanti anni e alla fine del recital, tutti ci chiedevano “vogliamo leggere il libro”. Io rispondevo che questo non era un libro ma un testo teatrale. Portando le varie testimonianze in giro per l’Italia, con il recital, ho visto l’attenzione verso questa malattia a livello di assessorati, comuni e associazioni di volontariato, e mi sono resa conto che era un percorso che dovevo continuare a fare. Il blocco dello spettacolo teatrale di Emily mi ha permesso di ponderare, riflettere e scrivere infine il libro.
E così ho iniziato a scrivere perché volevo mettere un punto fermo nella mia vita personale.
Sentivo che dovevo raccontare la mia esperienza, cosa era successo nella mia vita, e come la malattia, in quei lunghi anni e soprattutto in quell’ultima notte, aveva scatenato la creatività espressa nella scrittura. Perché l’ultima notte mi sono ritrovata a parlare tantissimo con mia madre, a raccontarle esperienze di cui lei non era mai venuta a conoscenza. Nulla doveva restare sospeso, non detto. Il sacco della mia vita doveva essere svuotato e consegnato nelle sue mani attraverso le mie parole e le foto ingiallite. Quindi ho costruito un libro da questa esperienza personale, un racconto di vita vissuta per amore, cercando l’amore, in maniera folle, spregiudicata, in maniera sofferente sotto alcuni punti di vista. Tutto quello che non era mai stato detto, tutti i vuoti, tutte le assenze che c’erano state all’interno del mio rapporto familiare, sono venute fuori nel libro. È stato come un messaggio d’amore che ho dedicato alla mia mamma. E la preghiera di essere ricordata e chiamata con il mio nome. Da questo il titolo RICORDAMI!
Sappiamo che lei è un’ambasciatrice Unicef. Ci vuole raccontare questa esperienza?
Sono stata molto orgogliosa quando mi hanno nominato nel 2001. Mi hanno ritenuta degna di questa nomina e per me è stato sinonimo di grande onore. Non dico che ciò abbia cambiato la mia vita, però sicuramente ha messo un punto fermo nella mia esistenza. Quando viaggi in Africa e vieni a contatto con una realtà molto lontana, anche se realtà simili possiamo ritrovarle dietro l’angolo, ti accorgi dei privilegi, di una vita facile e semplice che hai e come non ne siamo mai sufficientemente grati. Apparteniamo alla società del lamento continuo, dove per ogni stupidaggine perdiamo di vista l’importanza della vita vera. La mia vita non può essere totalmente diversa dalle persone che ho incontrato nei miei viaggi in Africa.
Lo è per forza di causa maggiore, certo: io abito qua, sono in Europa e faccio questa vita, ma se noi riuscissimo a renderci conto che accanto a noi ci sono persone che non hanno una virgola a confronto di quello che abbiamo noi, che non hanno un decimo di quello che abbiamo noi, forse potremmo iniziare a ridimensionare la nostra vita e a viverla in simbiosi con quelle persone non diverse da noi e non lontane da noi, poiché la nostra esistenza è nella comunione e nella condivisione. Io imparo a dividere la mia vita sapendo che tu esisti e quindi ridimensiono la mia spesa, ad esempio, e dono a chi non ha quasi nulla. Questo è vivere in comunione con il resto di un’umanità spesso dimenticata, messa in un angolo.
Daniela Poggi, vuole lanciare un messaggio alle lettrici del Pink Magazine Italia e a tutte quelle giovani donne di domani che lottano per seguire le proprie aspirazione?
Quello che posso dire è che bisogna sempre tenere i piedi per terra, rendersi conto di non dare mai nulla per scontato e che tutto può finire da un momento all’altro, di dare valore alle cose, alle relazioni, ai sentimenti e valore a noi stesse. Avere il coraggio di continuare a guardarsi dentro, non nascondersi dietro un trucco esagerato, o a una bellezza finta o a una eleganza ricercata. Credo che la virtù di una donna sia quella di essere semplicemente se stessa. Ed è la virtù che viene più apprezzata nel tempo.
L’uomo può essere attratto da qualcosa di fisico ma poi qualunque corpo perde tutto ciò che era un tempo. Ma la cosa più importante è la coerenza, l’equilibrio interiore, i valori, l’etica e il rapportarsi all’altro come una persona unica, rispettare il prossimo.
La carriera non vuole dire mors tua vita mea; la carriera vuol dire esaudire i propri desideri e sogni ma sulla base del lavoro e dello studio continuo. La vita è un continuo lavorare e studiare, e tenere bene a mente che il denaro che oggi possiamo guadagnare domani si può perdere. Non è denaro, potere o successo che fanno la serenità e la felicità, ma la felicità sta nell’essere se stessi, guardarsi ogni mattina allo specchio e sentirsi in pace con la propria coscienza. Accorgersi delle piccole cose, di un fiore che sboccia, di un tramonto che ci sorprende. Il sorriso, divertirsi con la gioia nel cuore e soprattutto non perdersi, non perdere mai di vista chi siamo, non fidarci di chi ci adula per la nostra bellezza e il nostro successo ma frequentare belle persone nell’animo. Il successo non è un punto di arrivo. Tutta la vita è una continua ricerca. Siamo erranti su questa terra e in transito… la meta è altrove. Questo è ciò da tenere sempre a mente.
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