La documentarista Alice Diop firma il suo primo film di finzione, Saint Omer, tratto da eventi realmente accaduti. Presentato quest’anno in concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Saint Omer ha ricevuto il Gran premio della giuria e il Leone del futuro, premio Venezia opera prima. Da giovedì 8 dicembre al cinema.

Saint-Omer è un comune francese che si trova nella regione dell’Alta Francia. Il rimando alla letteratura greca antica è altrettanto significativo e, partendo da lontano, ci introduce alla tragedia che stiamo per affrontare: una Medea contemporanea.

Due protagoniste, entrambe giovani donne di origini africane. Una è l’imputata, Laurence Coly (interpretata da una magistrale Guslagie Malanda), sedicente laureata in filosofia del linguaggio con una tesi su Wittgenstein, accusata di aver commesso un infanticidio. L’altra, Rama (Kayije Kagame), professoressa di letteratura e scrittrice, è una spettatrice che vuole raccontare la storia della giovane imputata.

L'attrice Guslagie Malanda in Saint Omer di Alice Diop
Guslagie Malanda in Saint Omer
Confini

Saint Omer, il lungometraggio di Alice Diop, apre con una vista notturna sul mare, l’immagine più emblematica per trattare il leitmotiv del film: i confini, l’assenza di questi, la loro messa in discussione. Come le onde, il risveglio di Rama è agitato: nel sonno stava invocando sua madre. Sin dall’inizio, il vissuto delle due donne si confonde, quasi ad eliminare del tutto la distanza tra i due personaggi, o tra i due ruoli: quello della colpevole e quello di una spettatrice. Le corrispondenze tra le due giovani sono sottilmente mostrate: l’inquadratura di Laurence in aula di tribunale ricorda, per toni e composizione, l’immagine che abbiamo visto all’inizio di Rama in cattedra. Il suo discorso è seguito da immagini d’archivio di donne francesi, collaborazioniste dei nazisti, a cui vengono rasati i capelli.

Il film comincia subito con il porci una domanda complessa: quando abbiamo a che fare col male, con delle tragedie che non sappiamo spiegarci, la responsabilità è dell’individuo o della comunità?

Limiti

Il processo ha inizio calcando la mano sulle origini non francesi di Laurence: i fattori culturali avranno sicuramente avuto un ruolo nel crimine commesso. Inizia così uno scambio intenso come una finale di tennis, dove ad ogni battuta c’è una messa in dubbio della veridicità delle parole. Laurence si dichiara innocente, pur ammettendo di aver lasciato la figlia sulla riva. Le sue parole sono sincere, non sta mentendo. Il padre della neonata è l’unico uomo con il quale lei sia mai stata.

Quando questo personaggio entra in scena, ci si rende subito conto del fatto che nell’azione compiuta da Laurence ci sono più attori (e fattori) in gioco. La distanza d’età, così come le prolungate assenze non giustificate da parte del padre, ci danno una nuova lettura dell’innocenza dichiarata dalla studentessa. Non stiamo più parlando di menzogne o verità ma di un problema linguistico-filosofico, wittgensteiniano, che è la messa in dubbio della reciproca comprensione del discorso, delle singole parole. I limiti del linguaggio sono i limiti del proprio mondo.

I giudici si attaccano a banalità come la stregoneria per cercare di mistificare la sua visione del mondo. Ma per Laurence non si tratta di un crimine; lei ha salvato una vita che sarebbe stata massacrata durante la sua esistenza nella società. Essere madre significa proteggere il proprio infante, a qualsiasi costo. È il suo vissuto, il suo mondo, a portarla a pensare che la marea sarà luogo più docile e mite: saprà accompagnare questa creatura in un posto migliore.

L'attrice Kayige Kagame in Saint Omer di Alice Diop
Kayige Kagame in Saint Omer
Un discorso sulla maternità

Per tutto l’arco del processo, Rama non è semplice spettatrice. Specchiandosi nell’immagine di Laurence, Rama si sente imputata esattamente quanto lei. Al quarto mese di gravidanza neanche lei sa come diventare madre: rivive momenti di solitudine della sua infanzia, in silenzio. Non sa trovare le parole.

Centrale è il ruolo della madre, madre che è sempre anche figlia, e questo ruolo polimorfo, questa chimera, prettamente femminile, assume una problematicità generale che non si limita più al caso in questione, ma richiama in causa tutte le donne.

Il femminile al cinema

Certamente il cinema non è solo ricerca di un’estetica ma anche luci della ribaltà per illuminare spazi, discorsi che altrimenti resterebbero in ombra. A Venezia il Leone d’Oro l’anno scorso lo vinse L’Événement di Audrey Diwan, tratto dall’omonimo romanzo di Annie Ernaux che racconta l’esperienza in prima persona dell’aborto negli anni ’60 in Francia. Se le donne che sono in politica non riescono a guardare in faccia le problematiche che la maternità pone alle donne di oggi, diamo almeno spazio al cinema, che anticipando la realtà sente l’impellenza di aprire questa conversazione.