Maria Vittoria Vittori, docente liceale, giornalista, scrittrice, curatrice di libri, e profonda amante del circo e di tutto ciò che esso rappresenta. La sua è una passione che nasce da lontano, ma che le ha dato la possibilità di entrare a far parte di un mondo che il nostro immaginario collettivo spesso associa velocemente a una realtà profondamente superficiale e artificiosamente leggera. Cancelliamo tutto e partiamo per un viaggio che ci porterà a scoprire il senso più stretto della parola “famiglia”, e ad assaporare il senso più alto dell’essere liberi. Perché il circo, come ricorda Vittori, non potrebbe essere se i suoi componenti non avessero insito in loro un grande spirito di solidarietà, condivisione e accettazione dell’altro.
Professoressa Vittori, partiamo dal titolo del suo saggio: La rivoluzione in pista. Storie di donne, circo e libertà. Di quale rivoluzione parliamo? Di quali donne parliamo.
Il circo sin dalla sua nascita è stato un centro catalizzatore per tutte quelle donne a cui le regole sociali, comportamentali, di etichetta erano per certi aspetti invise, perché non dava loro la possibilità di mettersi in gioco e di poter essere ed esprimere a pieno il loro essere.
Nel circo le regole a cui bisognava attenersi erano ben diverse: qui non si guardava l’avvenenza fisica, qualità importante in altri luoghi di svago, come i Café Chantant parigini, ma era fondamentale avere doti fisiche e atletiche. Nel circo si richiedeva quella agilità, padronanza, scioltezza del corpo che se per gli uomini era possibile attuare anche in altro modo per le donne no. La forza muscolare nelle donne era importante in funzione soltanto del loro essere mogli e madri.
Invece le donne del circo, soprattutto cavallerizze, acrobate, equilibriste fecero comprendere come la debolezza fisica delle donne fosse di fatto un falso mito. Ma del resto non sarebbe potuto essere altrimenti: alle donne non era concesso fare della sana attività fisica, cosa che invece era di fatto obbligatoria per i maschi.
La pista del circo rappresenta dunque una liberazione dell’espressività corporea, ma anche liberazione da una serie di regole non scritte soffocanti e spesso coercitive.
Allargando poi lo spettro di indagine si denota che il circo rappresentava un luogo di libertà e libera espressione non solo per le donne ma per tutte quelle persone che per religione, etnia, lingua, orientamento sessuale al difuori di esso non avrebbero trovato il loro posto al sole. Perché il circo basa la sua esistenza sulle competenze, e queste non sono retaggio di un’unica tipologia umana, ma sono patrimonio universale e dunque per mettere in scena uno spettacolo si ha bisogno di tutti. La rivoluzione nel circo è duplice: in pista c’è spazio per ogni tipo di arte, e per ogni tipo di contaminazione e di collaborazione tra le persone.
Il circo come un luogo inclusivo, trasversale, in cui “il diverso” e non solo trova una sua dimensione, trova una famiglia… Che tipo famiglia è quella del circo? È possibile che la “famiglia circo” possa essere applicabile anche al suo di fuori?
In fondo la bellezza del mondo circense è proprio questa, mettere sempre a confronto ciò che è dentro il circo e ciò che è fuori da esso. Il circo sin dalla sua nascita ha in sé una doppia struttura, per certi aspetti un po’ paradossale.
I primi circhi nascevano all’interno di un’unica struttura familiare, di tipo patriarcale, dove il ruolo del capo famiglia era centrale e del tutto tradizionalista. Ma quasi subito si assiste alla nascita di un altro tipo di famiglia, quella dell’ingaggio. Questa andava ad abbracciare tutte le figure che a mano a mano si aggiungevano al circo.
Ed è proprio questa famiglia a portare la rivoluzione in pista. Perché è in questo nuovo nucleo che si vanno a concentrare tutte le diversità di cui abbiamo parlato prima. Qui abbiamo le grandi differenze e la grande accettazione di ciò che si è. Gli artisti vengono scelti sulla base delle loro competenze e abilità nelle diverse arti circensi, ma anche per lo spirito collaborativo e di abnegazione. Qui avviene la massima mescolanza, la massima ibridazione. E cosa fa sì che persone completamente diverse tra loro si accomunino all’interno di una piccola realtà e soprattutto sentano l’esigenza di farne parte? Il senso di accettazione, di solidarietà, di appartenenza, di condivisione. Lo spirito di una famiglia.
Ma oggi è ancora così?
Sappiamo che oggi il circo sta subendo delle grandi trasformazioni. Nonostante non vi siano più grandi famiglie circensi che fungono da collante, la comunità dei circhi sente ancora forte lo spirito di appartenenza e di solidarietà, vedi il Cirque du Soleil. Ma soprattutto ha ancora ben chiaro l’importanza delle abilità e delle attitudini di ogni essere umano, senza le quali la magia del circo non potrebbe esistere. Con il libro cerco proprio di trasmettere questo messaggio: il circo non è solo lo spettacolo finale, ma è tutto ciò che concorre per poter arrivare a quello spettacolo finale.
Il circo spesso viene associato, anche nei modi di dire, a un modo di agire superficiale, burlesco, dove l’accezione negativa la fa da padrone. Come mai il circo, in apparenza così vicino al così detto uomo della strada è da esso meno compreso, tanto da concepirlo solo all’interno degli spazi canonici, il tendone?
Sì, in effetti esiste uno scollamento tra artisti e linguaggio comune.
Uno dei motivi che mi hanno spinta a scrivere il libro è proprio la denigrazione della parola circo, sempre associata ad azioni, comportamenti non idonei (il circo mediatico, il circo del dolore, il teatrino del circo). Mi ha molto indignato.
Non è facile uscire da questo erroneo modo di pensare, perché spesso si tende a vedere solo la parte più superficiale del mondo circense. Ma il circo è molto di più di una semplice esibizione al cardiopalma. I primi a rendersene conto sono stati gli studiosi della psiche umana. Aldo Carotenuto, junghiano, faceva notare come le esibizioni circensi altro non fossero che la messa in scena rituale della nostra psiche, quella nascosta, buia. Il brivido di un’emozione forte, la paura, il sollievo per lo scampato pericolo, ritrovare quel modo di divertirsi tipico dell’incoscienza fanciullesca, in cui prevale l’istinto sulla ragione, lo spettatore al circo prova tutto questo.
Come lui, anche Jean Starobinski, che tra le altre cose era anche psichiatra, con il saggio Ritratto dell’artista da saltimbanco ci porta alla conoscenza della figura del pagliaccio in tutta la sua leggera complessità.
Però appena si esce da quel tendone tutto ritorna come prima e la magia del circo evapora, così come era arrivata.
Eppure il mondo circense è sempre stato molto importante e ha influenzato non poco la cultura ottocentesca, come quella del Novecento. Pittori, letterati, attori, registi hanno attinto a piene mani da questo bacino. Per gli artisti allora è diverso?
Forse per un pittore, scrittore, attore, regista è più semplice entrare in dinamiche che sono già insite nell’arte in cui si cimentano. E tramite queste trasmettere la forza dirompente del circo.
Nel cinema il primo a portare sullo schermo la magia del circo, e anche le sue fragilità, fu Federico Fellini. Fellini aveva fatto proprie le teorie junghiane, assimilate durante le sue sedute psicanalitiche. Lo sdoganamento cinematografico del circo aveva dato modo di portare questo su piani differenti, farlo uscire dal suo bozzolo per divenire una forma artistica a tutto tondo e dunque presa a riferimento in panoramiche non solo culturali, ma anche sociali e politiche.
Anche il mondo della letteratura, così come il mondo pittorico si fece rapire dalla magia del circo.
Verissimo, ma con alcune sfumature differenti tra loro.
Nella seconda metà dell’800 il circo diviene una realtà consolidata e riconosciuta in tutta Europa. Parigi è il suo centro nevralgico.
Ogni corrente artistica sposa il circo e lo assimila a modo suo. Ma c’è un sentimento che accomuna tutti loro, l’invidia per la leggerezza, la naturalezza, la quasi assenza di sforzo fisico con cui gli artisti circensi mettono in scena i volteggi più complessi, le prese più spettacolari, le contorsioni più impensabili.
Gli avanguardisti vedono nel circo l’espressione più alta dell’artista. Si sentono molto affini a loro, tanto da definirli fratelli.
I decadenti vedono invece anche la parte più malinconica dell’artista circense. Finito lo spettacolo la loro straordinarietà è immediatamente dimenticata dal quel pubblico che solo un istante prima li aveva osannati e applauditi, come racconta Baudelaire nel poemetto Il vecchio saltimbanco.
Di sicuro per tutti loro il circo era un’arte a tutti gli effetti e suscitava sogni, emozioni proprio tanto quanto le loro opere. Come non ricordare il bellissimo dialogo che l’autrice Tracy Chevalier concerta tra Philip Astley, fondatore del circo moderno, e il poeta William Blake, nel romanzo L’innocenza. I due si ritrovano concordi nell’affermare che entrambi vendono illusioni, l’uno con gli artisti e i loro attrezzi e l’altro con la penna.
Nel libro ci racconta di come il circo sia stato in grado anche di cambiare il modo di scrivere, di insinuarsi direttamente nella struttura narrativa del romanzo.
Angela Carter nel suo romanzo Notti al circo fa proprio questo. Il circo per lei è un luogo che sta fuori da confini precostituiti, oltre le regole sociali. E se bisogna parlarne, allora è il suo linguaggio che si deve utilizzare. I tempi, l’espressività del linguaggio arrivano da quel mondo. Come non soffermarsi sulla descrizione che Carter fa dei clown? Noi impariamo a conoscerli attraverso le loro performance, sono queste a definirli, ed è solo attraverso la loro sequenza che i clown del romanzo prendono forma.
Il clown. Non c’è forse una figura più rappresentativa del circo e nello stesso tempo non c’è una figura che non porti con sé più sfaccettature e dicotomie. Come mai?
Jean Starobinski ha scritto molto in proposito. La figura del clown affonda le sue radici nel mito. Non è una figura nata con il circo, ma pre-esistente e trasferito all’interno di esso. Dal mio personale punto di vita, l’accezione malinconica che spesso si associa alla figura del pagliaccio trova i suoi natali nel filone patetico che si è creato intorno alla sua figura. L’opera I pagliacci di Leoncavallo ne è un esempio.
Di contro vi è però il pagliaccio che fa ridere sino alle lacrime e scioglie nodi che sino a quel momento erano stretti a doppio giro.
Maria Zambrano, una filosofa che ha dovuto lasciare la sua patria, la Spagna, e rifugiarsi come esule politica a Cuba, nonostante abbia assistito a cose atroci nel Paese natale, racconta nei suoi saggi sull’arte del clown di come queste figure abbiano alleggerito il suo stato, dandole la possibilità di respirare la libertà rubatale dal regime franchista. Su tutti cita Charlot, il personaggio creato da Charlie Chaplin, e Grock, clown vero e proprio che Zambrano aveva fatto in tempo a vedere in un circo a Madrid prima dello scoppio della guerra civile. Lei sottolinea che nonostante le enormi angosce e i pesanti fardelli della sua anima la visione di quel clown le ha regalato un’immensa leggerezza e la capacità di ridere come una bambina.
Molti intellettuali come lei hanno provato lo stesso. Non possono essere solo delle coincidenze. Il clown è un caleidoscopio di emozioni, è la libertà di espressione più pura e ancestrale. Il clown è il nostro io più profondo che non ha paura di esibirsi e mostrarsi al mondo.
Professoressa Vittori da dove nasce la passione per il circo? In che cosa l’ha aiutata conoscere a fondo questo mondo.
Sin da bambina sono sempre stata affascinata dal mondo circense. Per me era una scatola magica, nella quale pareva che tutto fosse possibile. Inoltre, sentivo lo spirito di libertà e inclusione che esso sprigionava e su questo terreno ho trovato moltissimi punti in comune. Quindi ho iniziato a conoscerlo meglio, ho letto tanto e conosciuto tante persone meravigliose, tra le quali Alessandro Serena, che me lo hanno reso ancora più caro.
In questo libro ho voluto far convergere le mie passioni più importanti, la scrittura, la letteratura, il circo, sottolineando come una può essere intersezione dell’altra.
Inoltre il circo mi ha insegnato che è possibile parlare di temi forti, complessi con la giusta leggerezza. È possibile essere leggeri ma profondi. È possibile tenere viva un’idea di collettività sempre curiosa, dinamica e in ascolto. Il circo è una macchina troppo complessa che non si può permettere di perdersi in questioni di categorie. Tutto è rapportato alla messa in scena dello spettacolo, tutto deve tendere a quello.
Sarebbe possibile, applicando la visione circense, affrontare temi importanti e profondi con la giusta leggerezza, mantenendo però sempre la stessa profondità e incisività?
Sarebbe auspicabile. Le donne che cito nel libro lo hanno fatto eppure la vita con loro non si è risparmiata. Ma mi piacerebbe chiudere con Eliseo Alberto che è riuscito a trattare temi molto complessi e profondi non abbandonando mai un tono lieve, quasi scherzoso. E lui di questo andava fiero e lo doveva per intero alla sua famiglia d’origine. Era una famiglia di grandi intellettuali cubani, amici di Maria Zambrano, che gli avevano insegnato l’arte della leggerezza, e l’importanza dell’utopia, nonostante la vita li avesse messi di fronte a tempeste individuali e collettive non di poco conto. Per me è un esempio da seguire.
(foto di copertina di Alessio Cesario)
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