Dal maggio 2019 lo stress da lavoro viene ufficialmente riconosciuto come sindrome. Colpisce più le donne in tutto il mondo e l’Italia non fa eccezione. Quali sono le cause e che cos’è il burnout?

Persino la penna ironica e dissacrante di Sophie Kinsella si sofferma sul Brunout, nel suo ultimo bestseller Sono esaurita (Mondadori, 2024). In questa nuova commedia romantica, la scrittrice britannica affronta un tema serio e delicato come il burnout con piglio inimitabile e grande ironia, senza perdere di vista il suo innato ottimismo. E il fatto stesso che se ne occupi denota un dilagare del fenomeno soprattutto tra le donne. La protagonista è Sasha: trentatré anni ha un ottimo lavoro, che però le toglie tutte le energie. Si sente terribilmente stanca, non frequenta più gli amici, di amore e sesso non vuole neanche sentir parlare. Ha attacchi di panico e prova un senso di vuoto e di profondo disorientamento. In poche parole, non ce la fa più. Così un giorno, di punto in bianco, scappa a gambe levate dal suo ufficio determinata a non tornare indietro.

Che cos’è il brunout?

È nel maggio 2019 che il burnout viene riconosciuto ufficialmente come sindrome dall’International Classification of Disease (ICD). L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo definisce un “fenomeno occupazionale” derivante da uno stress cronico mal gestito, benché sottolinei che non sia ascrivibile tra le malattie e non vada confuso con il disturbo post-traumatico da stress. Anche se ci sono dei sintomi in comune: ansia, fobie, disturbi dell’umore e difficoltà di adattamento.

Non si tratta però di  stress lavorativo temporaneo e circoscritto nel tempo. Ovvero quando le reazioni all’impegno psico-fisico regrediscono grazie a brevi pause di recupero. Il brunout è una condizione di stress cronico inserito in un contesto lavorativo, dove c’è un evidente squilibrio tra esigenze professionali e risorse personali disponibili.

La sindrome da burnout deriva dalla demotivazione, dalla delusione e talvolta dal disinteresse. E può scaturire dalle richieste pressanti sul lavoro, dai ritmi troppo intensi, e dal carico di responsabilità lavorative. Identificarsi nel proprio lavoro implica un grande e talvolta spropositato investimento di energie e risorse che, nel tempo, può scaturire in questa forma di stress cronico.

Burnout: se ne parla dagli anni Ottanta.

Nel 1981 il questionario (il Maslach Burnout Inventory) della psicologa Christina Maslach era nato per individuare il problema dell’esaurimento e del carico di stress in chi operava nell’ambito delle professioni di aiuto. Con il tempo, il burnout ha iniziato a riguardare sempre più ambiti lavorativi. Non solo medici e psicologi ma anche e chi fa una professione legata alla gestione dei problemi: insegnanti, avvocati. Ma anche chi lavora in ambienti competitivi. Oggi, l’Italia non è tra i paesi con l’incidenza maggiore, ma evidenzia, come gli altri Stati, un calo della produttività dovuta allo stress sul lavoro.

Perché le donne ne soffrono di più?

Un’indagine condotta nel 2017 per la Giornata Mondiale della Salute Mentale evidenziava che in Italia lo stress da lavoro colpisce in prevalenza le donne: gli impegni famigliari e la costante esposizione ad azioni discriminatorie e alle barriere culturali rendono la carriera delle donne più difficoltosa.

Il burnout colpisce molte più donne che uomini. A confermarlo è uno studio americano di McKinsey & Company :“The state of burnout for women in the workplace”. Nel 2020 il 42% delle donne americane dichiarava di essere stressata sul lavoro. Un dato che è in costante aumento, come evidenzia la McKinsey nel suo rapporto annuale. I “doppi impegni” delle donne – a casa e al lavoro – spesso generano un’oggettiva impossibilità di avanzamento di carriera e di realizzazione di sé.

Dire di no.

Dire di no è necessario. Magari non fuggire come la protagonista del romanzo della Kinsella. Ma dire di no a ciò che non possiamo e non vogliamo fare è decisivo. L’atteggiamento della donna di dover dimostrare di essere capace e multitasking è sbagliato. Non siamo programmate per far tutto, ma ci sentiamo sempre in dovere di dimostrarlo, perché siamo donne. Chiariamo: essere ambiziose è sacrosanto, giusto. Esserlo solo per sopravvivere in un ambiente maschile o dove predomina una cultura maschilista è sbagliato. Non possiamo fare tutto, non dobbiamo fare tutto. Ma siamo in grado di uscire dall’impasse da sole (con tecniche di rilassamento o semplicemente riducendo carichi emotivi e lavorativi). O rivolgendosi a professionisti: dalla psicologa alla fisioterapista, dall’estetista all’istruttrice di fitness.

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