L’arte contemporanea femminile rimanda come nome di riferimento all’artista serba Marina Abramović, colei che ha sfidato i limiti dell’essere umano.

A Belgrado nel 1946 nacque una bambina il cui destino ha segnato la traiettoria dell’arte contemporanea in chiave di installazioni e performance: Marina Abramović. Anche per chi è non è un cultore dell’arte, questo nome non è nuovo e, sia per vie traverse che dirette, tutti sanno chi è quest’artista. Un’artista che ha vissuto al limite e al limite ha portato la sua arte.

Un’arte capovolta.

Per descrivere la sua arte si possono usare 3 termini: rivelazione, turbamento e scardinamento. Nella sua autobiografia “Attraversare i muri”, lei stessa racconta come tutto è iniziato, come un percorso già segnato da eventi, dei segni premonitori. Con dei colori e una tela iniziò a dipingere per poi dare fuoco alla tela e spiegando che quello era un tramonto. L’arte, per Marina, è stata una via di fuga dai rapporti complessi con i genitori, in particolare con la madre. Quella che a molti sembra un’arte assurda e senza senso è, invece, il modo di raccontare il suo IO e che assume, per certi versi, un gusto antropologico.

L’incontro della svolta.

È nell’incontro con Joseph Beuys che l’arte di Marina Abramović prende una traiettoria che la renderà immortale. Resta affascinata dal movimento del Fluxus e dagli happening che in quel periodo si stavano diffondendo come modo alternativo alla classica arte. Questo momento sancisce il distacco dal mondo figurativo per andare, nel corso del tempo, a sperimentare un’arte estrema e, a volte, pericolosa per l’integrità fisica. Ma è proprio il corpo che viene usato come un oggetto d’arte, bersaglio dei visitatori, spesso messi nella condizione di agire andando contro quel corpo.

Sondare le emozioni umane.

Opere come Rhythm 0 del 1975 o The artist is present del 2010 raccontano un’arte che vuole sviscerare le emozioni, liberare dalle catene i nostri istinti, soffocati dalle convenzioni sociali. Nella sua autobiografia, Marina si mette a “nudo”, racconta le emozioni che l’hanno spinta a sfidare un sistema che si è trovato impreparato davanti questo livello di trasgressività. Marina ha aperto la strada dove sia opera che artista sono protagonisti e lo ha fatto in prima persona. Le sue performance hanno una componente provocatoria, sfidano l’uomo a tirare fuori istinti primordiali o, semplicemente, emozioni sopite da qualche parte.

Performances indimenticabili.

Nel corso della sua biografia, Marina Abramović parla anche dell’unico grande amore della sua vita, recentemente scomparso: l’artista Ulay. Con lui non ha condiviso solo un sentimento profondo ma anche una visione dell’arte che non conosce limiti. Abramovic ha costruito un’arte che ha posto una sorta di cesura con il passato. Con Ulay creò la performance “Imponderabilia” nel 1977, dove entrambi nudi si misero all’ingresso della Galleria d’Arte moderna di Bologna. Per passare, i visitatori dovevano decidere se rivolgersi a Marina o a Ulay. Dovevano scegliere chi affrontare basandosi su diverse motivazioni come il preferire il corpo femminile a quello maschile. Un’opera forse troppo moderna per una società ancora ancorata a schemi bigotti e con un concetto del corpo ancora un tabù. Tanto che la performance fu fermata dopo alcune ore dalla polizia.

Un amore lungo una vita.

Sia Ulay che Marina collaborarono insieme in altre performance. Erano due provocatori nati uniti da un filo rosso che, ancora oggi, è incomprensibile a molti. Sempre nel corso della sua autobiografia, Marina racconta squarci di vita condivisi con Ulay, dalla loro vita su un furgoncino della Wolkswagen, quelli che tanto andavano di moda all’epoca dei figli dei fiori, fino al loro soggiorno in Olanda. Hanno condiviso tutto ciò che era possibile condividere ma due anime come le loro non hanno retto alla quotidianità dell’amore. Si sono divisi ma uniti nell’animo.

The artisti is present.

È il 2010 e al MOMA di New York, Marina realizza la sua performance “The artist is peresent”: lei, seduta davanti un tavolo, attende che le persone si siedano dall’altra parte. È immobile ma la performance vuole sottolineare l’inesistenza dell’opera d’arte senza il suo autore. È un modo anche per capire il modo in cui le persone si avvicinano all’arte. Ulay, come tornato da un passato lontano, è lì e si siede davanti Marina. Lei apre gli occhi e la sua fermezza crolla. È impossibile non notare i suoi occhi e le emozioni che prendono il sopravvento. Un amore come il loro ha resistito al tempo. Un amore fatto di rispetto e stima reciproca che si materializza davanti i tanti spettatori presenti in quel momento. Anche questa è arte.

Un’artista eterna.

Marina Abramović ha sfidato l’arte, le convenzioni, una mentalità che ancora oggi risulta chiusa per molti aspetti. Ha sfidato sé stessa e l’essere umano. Ha mostrato una parte di lei perché è questo quello che un’artista fa: donare una parte di sé, come fosse un’autobiografia vivente. Non importa gli ostacoli, ciò che conta è il futuro e le nuove generazioni conosceranno quest’artista che ha diviso per anni l’opinione pubblica e i critici d’arte. Marina Abramovic, attraverso i muri è andata oltre quello che si pensava fosse possibile fare con l’arte.

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