
Leggere la “La Banalità del male” di Hannah Arendt significa capire come la normalità e l’obbedienza possono alimentare l’orrore.
La teoria della banalità del male, proposta dalla filosofa Hannah Arendt, è una delle riflessioni più profonde e inquietanti del XX secolo. Scritta in seguito al processo contro Adolf Eichmann, un alto funzionario nazista, questa teoria ha scosso la coscienza collettiva, invitando a riflettere su come il male non emerga sempre da individui eccezionalmente crudeli, ma possa essere perpetrato da persone comuni, immerse nelle routine quotidiane e nella cieca obbedienza alle autorità.
L’uomo comune.
Arendt, nel suo libro La banalità del male, descrive Eichmann non come un mostro, ma come un uomo straordinariamente ordinario, privo di ideologie estremiste o pulsioni sadiche, ma con una mentalità burocratica e un senso esagerato della propria funzione. Eichmann, per Arendt, non è il tipico “criminale” che compie atti malvagi con volontà consapevole. È un uomo che obbedisce senza riflettere, senza interrogarsi su ciò che fa. La sua responsabilità risiede nel suo “non pensare”, nell’incapacità di fermarsi e chiedersi se ciò che stava facendo fosse giusto o sbagliato.
Il depositario di segreti.
Nel corso del lungo processo (durato dall’aprile al dicembre 1961), Eichmann parla di sé, della sua vita prima e dopo aver preso parte al massacro degli ebrei. Era un uomo talmente comune e poco brillante, per certi versi, che faceva delle lusinghe e della vanità un modo per emergere in qualche modo. Dal racconto della sua infanzia e adolescenza, ne fuoriesce il ritratto di un uomo mediocre che non aveva una meta specifica o obiettivi particolari. Lui stesso dopo aver parlato del suo ingresso nel partito nazista e aver raccontato, in lunghi interrogatori, delle sue attività, si definì un “depositario di segreti”. Eichmann fu a conoscenza, infatti, durante tutto il periodo del Terzo Reich delle politiche di arianizzazione, di “emigrazione forzata” ed espulsione degli ebrei, delle deportazioni e degli omicidi nei campi di concentramento e di sterminio.

L’orrore.
Sapeva tutto eppure in un passo del libro, Arendt scrive che lui insisteva molto su un punto: non aveva mai nutrito un sentimento di odio per le sue vittime e, cosa più importante, non ne aveva mai fatto un segreto. Insieme ai suoi superiori Himmler, Heydrich, Kaltenbrunner e Müller, fu pertanto considerato una delle figure chiave della “soluzione finale”. Inoltre, fu accertato e confermato che aveva visitato le aree occupate della Polonia, il ghetto di Varsavia e vari altri campi, compreso Auschwitz, dove ebbe modo di vedere le camere a gas esistenti. Ripercorrendo le pagine del libro, Eichmann racconta quando vide morire gli ebrei dentro un camion nel campo di Kulm nel 1944. Vide entrare gli ebrei nudi, sentì le loro grida e poi i loro corpi scaricati in una fossa. E non fece niente.
Rimorsi di coscienza.
Eichmann, più volte, ha cercato di dire di aver cercato di salvare degli ebrei, di aver pensato ad altre soluzioni per allontanarli. Ma non fu giustamente mai creduto. Spesso ricorse a questo stratagemma per cercare di allontanare da sé la condanna a morte che già pendeva sulla sua testa. Fu chiesto ad Eichmann se avesse avuto dei rimorsi di coscienza. Probabilmente sì, ma la banalità del male stava per esplodere in tutta la sua forza.
La banalità del male.
Eichmann spiegò che a tacitare la sua coscienza fu il fatto che egli non vedeva nessuno contrario alla soluzione finale. Nessuno protestò, ma tutti obbedirono. Eichmann affermò, poi, di aver vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, soprattutto seguendo la parte relativa al dovere. In realtà, Kant aveva affermato che ogni uomo diventava un legislatore nel momento in cui iniziava ad agire. Eichmann, dunque, aveva creato nella sua mente una distorsione dell’imperativo categorico che, trasposto nella realtà, diventava l’ordine di Hitler. Eichmann fece semplicemente il “suo dovere”: obbedire agli ordini. Ecco come l’orrore può diventare ancora più grande.
La fine.
Sappiamo che Eichmann fu giustiziato per impiccagione e le parole di Arendt ci rimandano l’immagine di un uomo che è andato al patibolo con dignità, forse non completamente consapevole di ciò che le sue azioni avevano creato. Scrive Arendt: “…le sue speranze nella giustizia erano andate deluse, la Corte non gli aveva creduto benchè egli si fosse sforzato di dire la verità. I giudici non avevano capito: lui non aveva mai odiato gli ebrei, non aveva mai voluto il loro sterminio. La colpa veniva dall’obbedienza, che è sempre stata esaltata come una virtù. Di questa sua virtù i capi nazisti ne avevano abusato ma lui non aveva fatto parte della cricca del potere, era una vittima e solo i capi meritavano di essere puniti.”
Una riflessione importante.
La banalità del male, come descritta da Hannah Arendt, ci invita a riflettere su quanto il male possa essere radicato nella normalità quotidiana, nell’obbedienza cieca alle autorità e nella routine burocratica. Arendt ci mostra come l’orrore non nasca solo da individui mostruosi o psicopatici, ma da persone comuni che, senza interrogarsi sulle conseguenze morali delle loro azioni, si adattano passivamente a sistemi ingiusti. La sua riflessione ci sollecita a non sottovalutare mai l’importanza del pensiero critico e della responsabilità individuale, per evitare che il male si mascheri dietro la normalità. In questo senso, la vera pericolosità del male risiede nel suo poter diventare “banale”, ovvero accettato senza domande e senza consapevolezza.
Link per l’acquisto: La banalità del male
Sostienici, clicca qui: PINK
Comments are closed.