Nonostante la sensazione diffusa che la nostra società stia evolvendo – che le nuove generazioni siano più consapevoli, più aperte, più sensibili ai temi delle relazioni affettive e della parità di genere – i fatti di cronaca raccontano un’altra realtà, più dura e spiazzante. Sempre più spesso, le vittime di femminicidio sono giovani donne. E gli aggressori? Giovani uomini, coetanei. Intervista alla dottoressa Cristina Brasi.

Compagni di classe, amici di università, ragazzi cresciuti in quella stessa società che pensavamo più equa, più istruita, più libera da stereotipi tossici. Ci siamo chiesti: cosa non sta funzionando? Come può accadere che proprio tra i più giovani, coloro in cui riponiamo le speranze di un cambiamento, si ripetano dinamiche tanto antiche quanto violente?

Per cercare di capire più a fondo, ho voluto parlarne con Cristina Brasi, psicologa e criminologa, che da anni lavora a contatto con adolescenti e giovani adulti, indagando le radici emotive e culturali della violenza di genere.



Negli ultimi anni, soprattutto in Italia, stiamo assistendo a un numero crescente di femminicidi che coinvolgono giovani donne. Dal suo punto di vista, quali sono le dinamiche più frequenti alla base di questi crimini?



Pur non assistendo sempre a un aumento in termini assoluti di tutti gli omicidi, la percentuale di vittime donne uccise all’interno di relazioni affettive o familiari rimane allarmante e, in alcune fasce d’età, in crescita. In particolare, le giovani donne, spesso al culmine della loro fase di emancipazione e costruzione identitaria, risultano vulnerabili a dinamiche relazionali patologiche che sfociano nel crimine estremo. La dinamica più pervasiva è il controllo coercitivo, una strategia sistematica e pervasiva di dominio e sottomissione. Il perpetratore non solo monitora ogni aspetto della vita della vittima (comunicazioni, movimenti, frequentazioni), ma la isola progressivamente, privandola di risorse economiche, affettive e sociali.

Il femminicidio è quasi sempre il culmine di una spirale di violenza che si intensifica nel tempo.

Si parte da una fase di tensione crescente, fatta di umiliazioni, minacce, svalutazioni costanti che erodono l’autostima. Segue l’incidente acuto, l’esplosione violenta, fisica o psicologica. E, infine, la “luna di miele”, fase in cui il perpetratore mostra pentimento, chiede perdono, promette di cambiare. Questa falsa speranza intrappola la vittima, alimentando il “trauma bonding”, un legame patologico che rende difficile l’allontanamento.

Con il tempo la frequenza e la gravità degli abusi aumentano, fino all’esito più tragico, spesso innescato dal tentativo della vittima di liberarsi da questa morsa. Alla base di molti di questi crimini vi è una percezione distorta della donna non come individuo autonomo, ma come “proprietà”. Quando tenta di affermare la propria indipendenza, di porre fine alla relazione, o semplicemente di vivere la propria vita al di fuori del controllo del partner, ciò viene vissuto dal carnefice come un affronto insopportabile, una profonda ferita narcisistica. Il rifiuto innesca un’aggressività predatoria e vendicativa, spesso accompagnata dalla logica distorta del “se non è mia, non sarà di nessuno”.



Esiste un “profilo ” del femminicida? E quanto incidono fattori come la gelosia, il narcisismo patologico o la dipendenza emotiva nella decisione di compiere un gesto così estremo?



È fondamentale essere chiari: non esiste un unico “profilo ” rigido e predeterminato del femminicida, una sorta di identikit universale che ci permetta di prevedere con certezza chi compirà un atto così efferato. La criminalità è un fenomeno complesso e multifattoriale. Tuttavia, l’analisi psicocriminologica e i dati emersi da studi sui casi di femminicidio, ci consentono di identificare tratti e schemi comportamentali ricorrenti che, pur non configurando un profilo unico, costituiscono indicatori di rischio significativi.

Quando si parla di fattori che incidono in modo determinante nella decisione di compiere un femminicidio, tre elementi spiccano con particolare incisività: la gelosia, il narcisismo patologico e la dipendenza emotiva.


La gelosia, in questi contesti, non è mai una normale reazione affettiva. Si tratta quasi sempre di una gelosia patologica, spesso radicata in un profondo senso di insicurezza e possessività. Il narcisismo patologico è un altro fattore chiave. Chi ne è affetto, ha un’immagine di sé grandiosa e fragile, che richiede costante validazione esterna. La dipendenza emotiva è anch’essa un elemento cruciale. Non si tratta di una dipendenza passiva, ma di una dipendenza totalizzante e simbiotica, in cui l’aggressore non riesce a concepire la propria esistenza senza l’altro.



Il legame tra femminicidio e cultura patriarcale è ancora poco approfondito nel dibattito pubblico. Quali crede siano le radici culturali più profonde di questa violenza?



Con patriarcato si intende un sistema di valori, credenze e norme presente in ogni ambito della società, influenzando le relazioni di potere, la percezione dei ruoli di genere e il linguaggio. È nella sua natura sistemica che risiede la sua forza e la sua capacità di perpetuarsi. Questo sistema non è un’imposizione diretta in ogni momento, ma un insieme di norme sociali implicite ed esplicite che definiscono cosa significhi essere “uomo” e “donna” in una data società. Per l’uomo ciò può volere significare forza, controllo, razionalità e prevaricazione; per la donna, docilità, cura, emotività e sacrificio. L’aspetto più delicato in gioco compete il modo in cui anche le donne possono perpetuare e trasmettere la cultura patriarcale.

Questo fenomeno è noto come misoginia interiorizzata o solidarietà patriarcale femminile.

Le donne, socializzate fin dalla nascita in un contesto patriarcale, possono assorbire e riprodurre gli stessi schemi di pensiero e comportamento che le relegano a un ruolo subalterno. Questo può manifestarsi in diversi modi. Si pensi all’educazione delle figlie: madri, nonne, zie possono involontariamente trasmettere alle giovani donne l’idea che debbano essere remissive, compiacenti, “brave ragazze” che non creano problemi, che mettano sempre gli altri (specialmente gli uomini) al primo posto. Si insegna a non “provocare”, a sopportare in silenzio, a credere che un uomo “cambierà per amore”.

Spesso si sente dire di “portare pazienza” o “fare buon viso a cattivo gioco” in situazioni di prevaricazione. C’è poi la giustificazione della violenza o del controllo: a volte, all’interno di famiglie o comunità, si tende a giustificare o minimizzare i comportamenti abusivi degli uomini. Frasi come “lui fa così perché ti ama troppo”, “è un uomo passionale”, o “sei tu che l’hai fatto arrabbiare” sono ancora diffuse e contribuiscono a normalizzare la violenza.

Non si dimentichino inoltre la competizione femminile e il giudizio: la cultura patriarcale può spingere le donne a competere tra loro per l’approvazione maschile o a giudicare altre donne che deviano dalle norme di genere imposte. Questo indebolisce la solidarietà femminile e la capacità di fare rete, lasciando le vittime più isolate. Infine, può esserci una resistenza al cambiamento anche da parte delle donne stesse.


I social media sono diventati strumenti sempre più diffusi di controllo e sorveglianza all’interno di relazioni disfunzionali. Quanto pesa il controllo digitale nei casi di violenza sulle giovani donne?


Si pensi al monitoraggio costante e invasivo: attraverso social media, app di messaggistica e strumenti di geolocalizzazione, il perpetratore può tenere sempre sotto controllo la vittima. Ogni “mi piace”, ogni commento, ogni messaggio, ogni spostamento può diventare oggetto di scrutinio, interpretazione distorta e successiva accusa. Questo crea un senso di ansia perenne e una riduzione drastica dello spazio privato, sia fisico che psicologico nella donna.



Il controllo digitale è diventato un pilastro fondamentale del controllo coercitivo, in quanto ne amplifica la portata e la costanza, rendendo la sorveglianza quasi impossibile da eludere.

Un altro aspetto è la limitazione delle interazioni sociali: l’aggressore può monitorare e censurare le amicizie online della vittima, esigendo la rimozione di contatti, l’interruzione di conversazioni o persino l’invio di messaggi intimidatori a chiunque interagisca con lei. Questo porta a un isolamento digitale che si somma e spesso precede l’isolamento fisico, rendendo per la donna estremamente difficile chiedere aiuto o mantenere legami esterni alla relazione abusiva.

Le giovani donne sono particolarmente esposte a queste dinamiche per diverse ragioni. Innanzitutto, per la loro immersione nativa nel digitale. I social media sono parte integrante della loro vita sociale, identitaria ed emotiva. Esserne escluse o vederne l’uso distorto non è solo una limitazione, ma una vera e propria deprivazione sociale, che può avere un impatto devastante sul loro benessere psicologico. C’è poi la questione della reputazione e del ricatto.

Il controllo digitale può facilmente trasformarsi in ricatto emotivo o sessuale attraverso la minaccia di diffondere foto o video privati, o di pubblicare informazioni imbarazzanti o false sui social media. Questa forma di cyber-stalking e cyber-bullismo intra-relazionale è potentissima, perché mina la reputazione sociale della vittima, che per le giovani generazioni è strettamente legata alla loro identità digitale.

Il timore della “revenge porn” o della diffamazione online può paralizzare la vittima, impedendole di denunciare o di allontanarsi. Infine, la banalizzazione della violenza digitale. Spesso, comportamenti come il controllo delle password, la lettura dei messaggi, o la richiesta di “prove” costanti della propria posizione o attività, vengono normalizzati o considerati “prove d’amore” da parte delle vittime e, a volte, anche da chi le circonda.



Cosa si sentirebbe di dire oggi alle ragazze che vivono relazioni sbilanciate o che percepiscono come potenzialmente pericolose? Quali segnali è fondamentale imparare a riconoscere?



Molto spesso, l’inizio di una relazione sbilanciata o pericolosa non si manifesta con la violenza fisica immediata. Si insinua in modo quasi impercettibile all’inizio. Un primo segnale è il controllo sottile, ma crescente. È necessario porre attenzione quando il partner inizia a voler conoscere ogni spostamento, a chiedere con chi si sta parlando, a curiosare nel telefono o nei social media, a criticare amici o abbigliamento. Il suo linguaggio non verbale potrebbe essere di possessività: uno sguardo fisso, un tocco sul braccio che blocca, una postura dominante quando rivolge richieste. Il corpo della vittima potrebbe già comunicare disagio: evitare lo sguardo, spalle chiuse, tentativi di rendersi invisibili.


Un altro segnale è la gelosia esasperata e ingiustificata. Se ogni interazione con altre persone, specialmente uomini, scatena scenate, accuse, o fa sentire in colpa, è un campanello di allarme. Spesso queste reazioni sono accompagnate da minacce velate o esplicite di “non vivere senza di te” o di “fare gesti estremi” nel caso venisse lasciato. Molta attenzione deve essere posta alle critiche costanti e alla svalutazione.

Se il partner fa sentire inadeguate, stupide, incapaci, o minimizza successi e sentimenti, sta erodendo l’autostima. Il tono di voce sarcastico, le espressioni facciali di disprezzo, il non dare spazio al punto di vista, sono dei segnali d’allarme. Si consideri l’isolamento progressivo. Se il partner cerca di allontanare da amici, famiglia, dalle passioni, è finalizzato all’obiettivo di rendere dipendente la vittima. Il suo linguaggio non verbale mostrerà irritazione o fastidio quando si parla di uscite con altre persone e tenterà di trattenere fisicamente o emotivamente.


Infine la minimizzazione della violenza, fisica o verbale. Se si verificano episodi di violenza (spinte, strattoni, urla, lanci di oggetti) e lui subito dopo chiede scusa, promette di cambiare, o giustifica il suo comportamento, è una fase del ciclo di abuso che si ripeterà e si aggraverà. Il suo linguaggio non verbale in questi momenti di scuse può essere manipolatorio, con sguardi di finto pentimento o posture di sottomissione apparente, ma senza un reale cambiamento negli schemi di controllo.



Quali interventi concreti – psicologici, educativi, politici – potrebbero davvero prevenire il femminicidio? Cosa manca, oggi, nel sistema italiano di tutela e prevenzione?

A livello psicologico e clinico, è essenziale superare la visione reattiva per adottare un approccio proattivo. Questo significa implementare programmi di rieducazione per uomini autori di violenza. Non basta allontanare l’aggressore; è cruciale offrire percorsi specialistici di rieducazione alla gestione della rabbia, al riconoscimento delle dinamiche di controllo e possessività, e allo sviluppo di empatia.



La prevenzione del femminicidio non è un singolo atto, ma un processo articolato e multidisciplinare che deve agire su più livelli, dalle radici culturali più profonde fino all’intervento immediato in situazioni di rischio.


Parallelamente, è fondamentale offrire un supporto psicologico e una cura basata sul trauma (trauma-informed care) per le vittime. Questo non è solo un aiuto al momento dell’emergenza, ma un percorso a lungo termine, che aiuti le donne a elaborare il trauma, a ricostruire l’autostima e a riacquistare l’autonomia. Dobbiamo includere in questo supporto anche le figure genitoriali e i minori che assistono alla violenza, spesso vittime indirette, ma altrettanto danneggiate.

Infine, identificare e trattare precocemente la dipendenza emotiva e il narcisismo patologico, può prevenire l’escalation della violenza. Questo richiede una maggiore formazione del personale sanitario e sociale nel riconoscere i segnali precoci e nell’indirizzare verso percorsi terapeutici adeguati, sia per i potenziali aggressori sia per le vittime con co-dipendenze.

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Immagini di Dương Nhân

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