Quando sento dire la ormai celebre frase “A ognuno il suo mestiere”, penso che venga sottolineata una grande verità; ognuno di noi ha delle qualità e dei talenti che lo distinguono dagli altri. Eppure è universalmente riconosciuta la capacità di qualunque essere di nazionalità tricolore di saper fare un po’ di tutto; una specie di tuttofare nostrano che l’intero pianeta ci invidia.

Noi italiani non siamo solo pizza, pasta e mandolino, ma esseri umani dai superpoteri che persino gli eroi della Marvel ci invidiano. Possiamo inventarci idraulici e sfidare la simpatica salopette del Baffuto Mario e del cugino Luigi; possiamo sistemare una stampante nonostante non sappiamo accendere un semplice forno, diventiamo imbianchini, scienziati e tutta una serie di professioni che ignoravamo persino esistessero. E l’onniscienza ci fa un baffo. Nostradamus? Uno bravo, ma mai quanto il sapere che un italiano medio non vede l’ora di mostrare al mondo per poi dimenticare l’importanza del congiuntivo e la differenza di uso con il condizionale. Ed è lì che, davanti a cotanta sapienza vedi un libro di grammatica sbucare fuori dal nulla e gettarsi nel vuoto. Ma ciò che non finirà mai di stupirmi è la sicurezza ostentata in modo inossidabile anche da chi dovrebbe girare con una bavaglio alla bocca. E il commesso, o la commessa di turno, si trova impreparato davanti a questo cammino di luce che certi clienti cercano di donare a noi poveri plebei, neanche fossero gli Illuminati citati da Dan Brown in “Angeli e Demoni”.

Improvvisamente, alcuni clienti iniziano a commentare e, a volte, anche ad alterarsi se tu cerchi di far capire che certe loro affermazioni non sono esatte. Effettivamente, se guardiamo chi commenta ci rendiamo conto da soli che sono una parodia di sé stessi. C’è l’esperta di moda che va in giro con una maglia che sembra rubata ad uno che partecipa al palio di Siena, chi stressa sul prezzo e poi pretende le cose firmate a 5 euro altrimenti rimane colpito da un infarto. E potrei proseguire con gli esempi fino alla prossima reincarnazione, perché ogni giorno qualcuno sente la necessità di dare sfoggio a conoscenze che non possiede. Oppure iniziano con una serie di domande che neanche chi ha materialmente realizzato l’oggetto conosce le risposte, inizia a sudare freddo e cerca disperatamente l’aiuto da casa neanche fosse al Milionario. E sono proprio questi clienti così curiosi, per non dire altro, a diventare simpatici come un’unghia incarnita. Gente che si improvvisa commerciante rampante, con un’idea tutta personale sui prezzi da esporre; persone che pensano di essere vetrinisti provetti e danno indicazioni su come fare la vetrina, mentre tu stai facendo la lotta greco-romana con il manichino all’interno di una vetrina più piccola di un box per neonati. Gentili donzelle che non si accontentano di sapere che la lana del maglione è pura lana inglese, ma pretendono anche di sapere la regione di provenienza. A quel punto non sai se maledirle oppure risponderle che chiederai alla pecora se ha l’accento delle Isole Shetland o quello del Galles interpretando il suo beeeee!

Ma ecco alcuni simpatici esempi di Tuttologi fai da te!

1) Durante una comunissima mattinata di lavoro entra un signore, nostro cliente abituale. Saluta e gira per il negozio osservando con attenzione i prezzi. Ad un tratto richiama la mia attenzione ed esordisce così:

Cliente «Questi pantaloni costano troppo. 15 euro? Ma stiamo scherzando? Nel negozio vicino la stazione costano molto di meno.»

Io: «Ma lo stesso tipo di pantalone?»

Cliente: «No, ma non potete far pagare 15 euro un pantalone! E pure le camicie di flanella da uomo…10 euro sono troppe. Se le mettete a 5 euro le vendete.»

La mia faccia è tutta un programma. Non so se scoppiare a ridergli in faccia o dare le dimissioni e far assumere lui. E mentre penso questo lui continua a blaterare su ipotetici nuovi allestimenti, su come mettere più in evidenza le maglie etc etc etc…

Con un gesto della mano faccio avvicinare la collega e le domando sottovoce se per caso abbiamo cambiato titolare, caso mai mi fossi persa qualcosa. Lei nega con decisione e fa spallucce, per poi scuotere la testa sconsolata davanti al monologo del cliente. E’ una situazione surreale dal quale non so come uscire. Gli faccio presente che noi facciamo quello che ci viene detto dai piani alti e che diversamente non posso fare, ma vorrei tanto dirgli che sarebbe fantastico se si facesse una teglia di fatti suoi. E come se niente fosse, finisce la sua apologia del perfetto commesso e se ne va. Senza neanche salutare.

2) Abbiamo da poco pubblicizzato sulla pagina social del negozio una linea di abbigliamento femminile che si ispira al design di Desigual. Due signore entrano e chiedono di quella linea ed io mostro loro dove si trova. Iniziano a curiosare ed io continuo a sistemare dei capi sulle mensole, quando una di loro si avvicina con una maglia in mano e chiede:

Cliente: «Scusi, ma questa maglia è Made in Italy?»

Io: «Credo di no signora» le dico tirando fuori il cartellino e cercando la provenienza, «E’ stata fatta in Cina.»

Cliente: «Ne è sicura? Perché qui c’è scritto PRC. Non è cinese!»

Io: «Signora, PRC sta per Repubblica Popolare Cinese. Si può dire in entrambi i modi.»

Cliente: «Ne è proprio sicura?»

Io: «Sì!»

Cliente:«E perché portate cose fatte in Cina? Lo sa quanta gente viene sfruttata per pochi centesimi?»

Mentalmente sospiro mentre lei inizia a dire che è scandaloso che vendiamo roba fatta in Cina e che ormai l’Italia è un paese in declino. La guardo fisso perché, essendo ancora mattina presto, non ho ancora bevuto la mia tanica di caffè che mi consentirebbe di non assomigliare ad un’ameba. Mentre cerco di dare un senso alla sua teoria sullo sfruttamento umano, mi sale il nervoso quando ci accusa di vendere merce scadente, come se fossimo gli unici a vendere prodotti Made in China.

Io: «Guardi signora che quasi tutto quello che indossiamo è made in China. Anche la sua borsa, probabilmente.»

Cliente: «Ma cosa dice? Lei non capisce nulla. Questa è una borsa di marca che ho pagato ben 280 euro. Le pare che è stata fatta in Cina?»

Io: «Forse sì, perché la manodopera è una cosa distinta dalla provenienza del materiale, a volte. Per me anche la sua borsa potrebbe essere cinese» rispondo con calma serafica.

La signora mi guarda sconcertata e sono certa che non potrebbe mai accettare il fatto che ha speso così tanti soldi per una borsa assemblata in Cina.

Io: «Signora, facciamo una scommessa. Scommettiamo un caffè, niente di impegnativo. Se ho ragione io lei offre a me altrimenti viceversa.»

Cliente: «Ci sto, ho proprio voglia di gustarmi un caffè!» dice con tono superiore.

E così andiamo alla cassa dove le chiedo di svuotare la borsa così da cercare il cartellino che, ne sono convinta, hanno nascosto molto bene. La signora esegue con quell’aria di chi pensa di sapere tutto e considera te, povera commessa, una che al massimo può aspirare a servire gli altri.

Mi bastano 5 minuti per trovare l’angolino dove è stato inserito il cartellino e…dulcis in fundo recita…MADE IN CHINA! La signora rimane allibita, credo si senta presa per i fondelli visto il costo della sua borsa. Dopo essersi ripresa ed essersi espressa con epiteti che per ovvi motivi, è meglio non riportare, sdegnata esce dal negozio insieme alla sua amica che se la ride sotto i baffi. É inutile dire che quel caffè come la signora non li ho più visti!