Oggi, 25 Novembre, è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una data che non dovrebbe nemmeno esistere. Una giornata il cui nome non dovremmo neppure pronunciare. Eppure, sebbene faccia rabbia il solo parlarne, se ne deve discutere affinchè venga un giorno cancellata.

Istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in questa giornata si ricordano le donne vittime di violenze domestiche, carnali o psicologiche. Le morti assurde, di corpo e anima, causate troppo spesso da sentimenti malati. Ci si domanda il motivo di questa piaga e ci si chiede ancora, oggi, se esiste un rimedio per evitare che accadano ancora, e ancora, quelli che abbiamo imparato a definire femminicidi.

Femminicidi. Un termine al quale tristemente ci stiamo abituando, entrato a forza nel nostro vocabolario.

Non vi parlerò qui di fatti di cronaca, troppo numerosi purtroppo, che si rincorrono nei telegiornali, nemmeno dei risvolti morbosi che ne seguono ogni volta o dei dettagli giornalistici, troppo attenti alle dinamiche dei fatti, ma piuttosto a quello che si nasconde dietro di essi e alle parole che molto spesso sono il frutto marcio di una società che marcia, in fondo, lo è stata sempre.

La parola è una spada affilata. Attraverso le parole, attraverso i testi, si può davvero declamare ogni cosa.

Infatti nemmeno la letteratura si è risparmiata di parlare di donne assassinate o stuprate.

Di questa piaga la storia e la letteratura ce ne riportano troppi tristi esempi, celati tra le righe. A volte evitiamo di parlarne o lasciamo che a distrarci sia l’incanto della poesia o del testo in sé. Anche nelle bellissime e romantiche terzine del Canto V dell’inferno dantesco, uno dei più celebri e appassionati, si è consumato un femminicidio: Francesca da Rimini viene uccisa dal marito perché innamorata del fratello di lui. Come se il tradimento fosse una scusante valida per l’assassinio.

In tempi più moderni, la crudeltà della novella di Verga dal titolo Tentazione ci fa inorridire per il suo realismo crudo, da mostruosa cronaca quotidiana. Uno stupro e un assassinio in piena regola che fa rabbrividire. Uomini, anzi maschi, che si ergono a dittatori sessisti, che credono davvero di poter dominare altri esseri viventi, in questo caso la donna. Una novella che non si fa mai leggere sui banchi di scuola, per ovvi motivi, ma che al contrario potrebbe educare al comportamento.

Se guardiamo a tempi ancora più antichi: nel mito di Dafne e Apollo si può riscontrare quella gelosia e quell’idea di possessione che sono sempre causa dell’annientamento dell’altro: Dafne si trasforma in alloro proprio per sfuggire ad Apollo, negando dunque se stessa e la propria esistenza, come se quella fosse l’unica soluzione per sottrarsi all’interesse malato del dio.

I femminicidi, dunque, sono sempre stati materia di scrittura. Triste e mortale. Frutto di un’ideologia avvinghiata ancora all’eterno mondo patriarcale che ha sempre collocato la donna a essere inferiore.

A essere una cosa, un oggetto.

Eppure basterebbe soltanto educare gli esseri umani al rispetto delle scelte degli altri.

Tutto parte da qui: dall’educazione. E non s’intende, in questa sede, di semplice galateo. Ma di un’educazione sentimentale, del riguardo verso l’altro sesso inteso come essere vivente che ha il diritto di vivere una vita dignitosa. Del convincimento di nessuno che ha potere su nessuno, perché una donna, o più in generale un essere umano, non è una proprietà, un bene immobile o una eredità legittima.

Una donna è carne e sangue, anima e cervello. Esattamente come lo è l’uomo.

Uccidere per amore non è amare. Troppo spesso abbiamo infangato questo verbo. L’amore non ammette vincoli di alcun genere, violenza o sevizie. L’amore accresce. Non annienta. E dell’amore non dobbiamo aver paura, così come non dobbiamo aver timore di denunciare tutto ciò che va contro l’amore nonché contro la libertà di vivere.

La vicenda di Francesca da Rimini non ha nulla di romantico. È una tragedia che, traslata ai giorni nostri, risuona incredibilmente attuale. La crudeltà del verismo di Verga e della sua novella, sembra uno sciagurato fatto di cronaca. La storia di Apollo e Dafne è un chiaro esempio di stalking, di un’ossessione malata che nulla ha a che fare con i sentimenti.

E dobbiamo smetterla di pensare che le notizie di cronaca nera, così tanto vergognose, facciano oramai parte del nostro vissuto. Una società che reputa normali oramai, all’ordine del giorno, notizie di femminicidio, resterà una società malata come lo è sempre stata. Una società patriarcale che vede le donne come mero strumento di piacere, streghe da bruciare sul rogo o esseri limitati non può che regredire anziché progredire e alla fine, esercitandosi alla violenza spacciata per un “atto normale”, non può far altro che implodere.

Non so se può esistere una cura effettiva a questo male. Ma so che l’uomo, inteso in senso generico, può e deve migliorare educandosi al rispetto interpersonale e alla vita.

La vita. Quella che le donne mettono al mondo. Quella che va preservata e amata, sempre.

E allora, in questo giorno che non dovrebbe nemmeno esistere, riflettiamo su tutto ciò e onoriamo la vita.

Educhiamoci alla vita, non alla morte, affinché la parola femminicidio si incammini a diventare un termine obsoleto una volta per tutte e affinché le storie e i miti sopra riportati restino ciò che sono: vicende reali o di carta da cui abbiamo, finalmente, imparato qualcosa.