La vera storia di Veronica Franco, l’honesta cortigiana musa dei più grandi pittori veneti e amata da re e dogi. Dedicò la sua vita all’amore e alla letteratura. Fu processata per stregoneria e morì in disgrazia, dopo aver lasciato tutti i suoi beni alle ragazze indigenti.
Nel Catalogo di tutte le principali e più onorevoli cortigiane di Venezia, stampato clandestinamente nel 1565, erano elencate tutte le prostitute veneziane con relative tariffe, le loro mezzane, e si indicavano i luoghi dove le si poteva incontrare. Tra le ragazze, un nome salta subito all’occhio: Veronica Franco, che esercitava a Santa Maria Formosa, la cui mezzana era sua madre Paola.
Veronica era nata a Venezia nel 1546.
Il padre era un originario (un discendente dei primi nuclei familiari insediatisi in laguna) e sua madre era la nota cortigiana Paola Fracassa. La donna non avrebbe voluto che Veronica esercitasse il meretricio. Perché la ragazza era molto intelligente, dicevano i suoi precettori, e quindi meritava di fare una vita da signora. In realtà Veronica signora lo era già: la sua famiglia apparteneva a un ceto sociale a metà strada tra la nobiltà e il popolo. Tutto ciò aveva reso possibile a Paola la scelta di una clientela selezionata. E avrebbe di conseguenza facilitato Veronica se avesse intrapreso la carriera della madre.
La ragazza era l’unica figlia femmina della coppia, che aveva altri tre figli: Jeronimo, Horatio e Serafino. Con i suoi fratelli maggiori Veronica condivise le lezioni private e poté godere di un’educazione molto accurata. La sua cultura le permetterà di accedere ai più prestigiosi ed elitari circoli letterari veneziani, tra i quali quello del poeta e nobiluomo Domenico Venier, che divenne suo protettore e mecenate.
La madre di Veronica, non volendo avviare la figlia alla cortigianeria, la diede in moglie, ancora adolescente, a un vecchio medico, il dottor Paolo Panizza. I due si separarono presto, e Veronica tornò a casa della madre. Aveva appena compiuto 18 anni quando cominciò la sua carriera di cortigiana.
Veronica fu allieva attenta anche per quanto riguardava l’arte dell’amore.
Sua madre le insegnò come vestirsi, come comportarsi, come usare la sua intelligenza e le sue conoscenze per conversare con gli uomini. Fin dall’inizio fu considerata una vera intellettuale. Scriveva eccellenti versi, si dedicava alla saggista, era in grado di suonare più di uno strumento musicale ed era curatrice di collane poetiche. Sapeva tenere testa ai suoi avversari ed era ammirata da uomini e donne. Tra i protettori figuravano nomi eccellenti come Marcantonio Della Torre, Giacomo di Baballi, Lodovico Ramberti, Guido Antonio Pizzamano. E Marco Venier, il suo unico vero amore, che qualche anno più tardi sarebbe diventato ambasciatore di Venezia a Costantinopoli.
Veronica ebbe due figli accertati: Achilletto, da Giacomo di Baballi, e Enea, da Andrea Tron.
La sua fama di cortigiana honesta raggiunse il culmine della notorietà nel 1574, quando Enrico III di Valois si trattenne a Venezia tra il 18 e il 28 luglio, di passaggio in laguna durante il viaggio che lo riportava dalla Polonia in Francia, dove avrebbe preso il posto del fratello morto prematuramente. Come omaggio alla visita del re francese a Venezia, gli furono offerti diversi svaghi, tra i quali del buon cibo e dell’ottimo sesso con Veronica, la più bella cortigiana di Venezia. Pare che a fare da “mezzano” fosse stato Andrea Tron, che faceva parte della scorta del re a Venezia. Come ricordo del loro incontro, Veronica regalò un suo ritratto a Enrico III. Gli scrisse una lettera accompagnata da due sonetti: “Come talor dal ciel sotto umil tetto” e “Prendi, re per virtù sommo e perfetto”.
Questo episodio diede a Veronica una grande notorietà, e lei diventò la cortigiana veneziana per eccellenza; in seguito per questa ragione poté godere di privilegi vietati alle altre cortigiane.
La fama di Veronica era legata soprattutto alla clientela selezionatissima che frequentava il suo salotto e, spesso, il suo letto.
Da lei si intrattenevano gli aristocratici della Serenissima, molti intellettuali e tanti artisti. Veronica, dal canto suo, frequentava il famoso circolo letterario di Ca’ Venier, istituito da Domenico Venier; aveva rapporti, soprattutto di natura intellettuale con il fratello di Domenico: Lorenzo. Ma anche con Marco che, dicevamo, fu forse l’unico uomo che amò veramente e a cui dedicò sonetti e lettere d’amore.
Nell’ambito della famiglia Venier Veronica ebbe anche a che fare con Maffìo, figlio di Lorenzo e nipote di Domenico. Questi ebbe una sorta di schermaglia letteraria con Veronica: la attaccò e denigrò pubblicamente. È probabile che Maffio fosse stato respinto della Franco e che si fosse vendicato insultandola prima con alcuni versi anonimi. Poi accusandola di essere “marcia di sifilide”. Per ironia della sorte: qualche anno dopo, nel 1586, fu proprio Maffio a morire di sifilide. Quando scoprì chi le aveva rivolto quei versi infamanti, Veronica sfidò Maffio prima a un duello con le armi, ma la sua sfida venne ignorata. Così gli propose una gara di versi. Maffio non accettò nemmeno quella sfida.
Veronica Franco si occupava regolarmente di letteratura.
Nel 1575 Francesco Martinengo la pregò di curare la pubblicazione di una miscellanea di poesie commemorative, composte in ricordo del conte Estore Martinengo, capitano di fanti. Nella raccolta sono contenuti anche nove sonetti di Veronica, e alcuni componimenti poetici di Domenico e Marco Venier.
Nel 1580 la Franco pubblicò cinquanta Lettere familiari a diversi, dedicate a Luigi d’Este, il cardinale di Ferrara. Nella raccolta delle lettere si trovano tutti gli interessi culturali di Veronica, i suoi rapporti con i letterati del tempo e le sue abitudini, e vengono rivelati i dettagli dell’esercizio della sua professione, senza false ipocrisie. Nei sonetti Veronica esalta l’eccellenza delle sue doti di amante, senza mai essere oscena, ma anzi riconoscendo il lato giocoso dell’eros[1]:
Così dolce e gustevole divento,
quando mi trovo con persona in letto,
da cui amata e gradita mi sento.
Il processo per stregoneria.
Nel maggio del 1580 Veronica Franco si accorse di essere stata derubata nella sua stessa casa. Il 22 maggio dello stesso anno si rivolse all’autorità ecclesiastica per ottenere dal patriarca l’ingiunzione di consegna. Le conseguenze di questo furto e della relativa richiesta d’ingiunzione la portarono l’8 e il 13 ottobre davanti al tribunale del Sant’Uffizio, con l’accusa di “immoralità dei costumi e sospetta stregoneria”. Veronica venne definita “publica meretrice”. Venne denunciata dal precettore di Achilletto, tale Ridolfo Vannitelli, che testimoniò di averla vista esercitare sortilegi e fare invocazioni diaboliche per ritrovare la refurtiva e soprattutto per procacciarsi i clienti.
Nel verbale del processo si legge che Veronica si difese da sé con le sole armi della retorica, dichiarandosi innocente. Il tribunale dell’Inquisizione la assolse. Fra le altre notizie che abbiamo di lei, a parte l’increscioso processo, si sa che andò in pellegrinaggio a Roma per il Giubileo del 1575. Intraprese pochi viaggi in Veneto. Da una notifica dei beni, presentata nel 1582, si legge che, a causa dell’ondata di peste che si abbatté su Venezia dal 1575 al 1576, Veronica Franco aveva perso gran parte del suo patrimonio. E aveva subito un grave lutto in famiglia: il fratello Jeronimo era morto, infatti, a causa del morbo.
Veronica così decise di abbandonare la professione di cortigiana a soli trentaquattro anni, per dedicarsi alle opere di carità.
[1] V. Franco, Sonetti, I, 154-160.
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