«Quanto largo e benigno si dimostri talora il Cielo nell’accumulare una persona sola l’infinite ricchezze de’ suoi tesori e tutte quelle grazie e più rari doni che in lungo spazio di tempo suol compartire fra molti individui, chiaramente poté vedersi nel non meno eccellente che grazioso Raffael Sanzio da Urbino; il quale fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole alcuna volta vedersi in coloro che più degl’altri hanno a una certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d’una graziata affabilità, che sempre suol mostrarsi dolce e piacevole con ogni sorte di persone et in qualunque maniera di cose.» Così Giorgio Vasari ne scrive nella sua enciclopedica opera “Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri” (Firenze, 1568).
A cinquecento anni dalla morte di uno dei maestri del Rinascimento Raffaello Sanzio, molte sono le iniziative in Italia per ricordarlo. Era un Venerdì Santo, il 6 aprile 1520, quando l’Urbinate spirava e la sua gloria ascendeva presso l’olimpo dei divini artisti, all’età di 37 anni, piacevole d’aspetto, noto per i modi gentili e i rari talenti, conteso da bellissime donne e illustri committenti. È sempre il biografo Vasari a raccontare della sua morte sopraggiunta dopo quindici giorni di malattia: seppure pare così giovane non sia stato una malattia a stroncarlo, ma una febbre “continua e acuta” dovuta agli “eccessi amorosi” dopo una notte brava; Raffaello però mente al medico che lo cura non facendo parola delle vere cause del malessere, in tal modo invece di prescrivergli un ricostituente, il medico lo sottopone a ripetuti salassi che lo condurranno alla morte. Quel venerdì Santo del 1520 segni straordinari si sarebbero manifestati, come nel Venerdì della morte di Cristo: i cieli si agitarono e una crepa squarciò il Palazzo del Vaticano, forse per effetto di un modesto terremoto. Una leggenda probabilmente e nulla di più, ma sancì la grandezza della vicenda umana di questo artista il cui nome e la cui arte ha continuato ad avere eco nei secoli avvenire.
In questo cinquecentenario dalla sua morte, tra le molte opere che celebrano ancora tutt’oggi il suo talento, voglio ricordare gli affreschi delle cosiddette Stanze di Raffaello, ossia gli appartamenti vaticani che lo terranno impegnato, a fasi alterne, per tutto il periodo romano, dal 1508 al 1520, sotto l’ala protettrice del pontefice Giulio II della Rovere. Il giovane urbinate si era trasferito nella Città Eterna verso la fine del 1508 e pur ricevendo incarichi da vari mecenati, già l’anno successivo il Papa gli affida in esclusiva il compito di terminare gli affreschi delle sue stanze private, scavalcando tutta la squadra di pittori – tra cui Perugino, Bramantino, Lorenzo Lotto, Johannes Ruysch – chiamati in principio da Giulio II. Ormai Raffaello Sanzio era il più amato e ricercato tra gli artisti della città, ben pagato e con uno stuolo di collaboratori al suo servizio.
Quattro sono le celeberrime stanze dell’appartamento al secondo piano del Palazzo Pontificio: chiamate della Segnatura, di Eliodoro, dell’Incendio di Borgo, di Costantino (quest’ultima solo progettata da lui), affrescate con vari temi. Partiamo dall’ultima, in un percorso al contrario rispetto a quello consueto. La Stanza di Costantino era la sala destinata a ricevimenti e cerimonie ufficiali e fu decorata dagli allievi di Raffaello, sulla base di disegni del maestro, morto prematuramente prima della fine dei lavori, che proseguiranno fino al 1524. Essa prende il nome da Costantino, primo imperatore romano a riconoscere ufficialmente la religione cristiana concedendo la libertà di culto: sulle pareti sono raffigurati quattro episodi della sua vita che testimoniano la disfatta del paganesimo e il trionfo della religione cristiana.
Ai tempi di Giulio II la sala denominata Stanza dell’Incendio di Borgo fu utilizzata per le riunioni del più alto tribunale della Santa Sede, presieduto dal pontefice, ma sarà con il successore Leone X – quando sarà adibita a sala da pranzo – che Raffaello viene incaricato di affrescare le pareti affidandone gran parte dell’esecuzione agli allievi. Tali affreschi illustrano le aspirazioni politiche di Leone X per mezzo di storie tratte dalle vite di due pontefici precedenti con lo stesso nome e in tutti gli episodi il papa assume i tratti del pontefice regnante Giovanni de’Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. L’Incendio di Borgo che dà il nome all’ambiente, divampò nell’anno 847 nel quartiere – oggi scomparso per lasciare spazio a Via della Conciliazione – antistante la Basilica di S. Pietro: si racconta che il papa dell’epoca, Leone IV, impartendo la benedizione solenne dalla Loggia delle Benedizioni, estinse miracolosamente il fuoco, salvando così la chiesa e il popolo.
Se continuiamo il nostro giro a ritroso negli appartamenti di papa della Rovere, troviamo la Stanza di Eliodoro, anticamente destinata alle udienze private del pontefice e decorata da Raffaello subito dopo la stanza della Segnatura. Il programma iconografico è politico e mira a documentare, in diversi momenti storici – dall’Antico Testamento all’epoca medioevale – la miracolosa protezione accordata da Dio alla Chiesa minacciata su più fronti.
Senza dubbio però è la cosiddetta Stanza della Segnatura che mostra i più famosi affreschi di Raffaello: essi costituiscono l’esordio del grande artista in Vaticano e segnano l’inizio del pieno Rinascimento. L’ambiente prende il nome dal più alto tribunale della Santa Sede, la “Segnatura Gratiae et Iustitiae”, che qui si riuniva intorno alla metà del XVI secolo, dopo la trasformazione di destinazione della già menzionata Sala dell’Incendio del Borgo. In origine Giulio II l’aveva scelta a uso di biblioteca e studio privato e proprio a questa funzione si lega il programma pittorico eseguito qui tra il 1508 e il 1511. Ben pochi, o forse nessuno, possono non riconoscere uno degli affreschi paretali, la “Scuola di Atene”, dove Raffaello mostra tutto il suo amore per la cultura classica e le sue conoscenze nel campo dell’architettura, allestendo questa memorabile scena in cui si muovono i più celebri filosofi dell’antichità, alcuni dei quali sono facilmente riconoscibili: ad esempio, Pitagora è raffigurato in primo piano intento a spiegare sul libro il diatessaron; sdraiato sulle scale con la scodella è Diogene; sulla destra sono visibili Euclide, che insegna geometria agli allievi, Zoroastro con il globo celeste, Tolomeo con quello terrestre.
È indubbio che ci sia una figura che cattura gli occhi di chi osserva questa affresco, sia su un libro o abbia la fortuna di farlo di persona: una figura di biancovestita dai tratti efebici, l’unico personaggio che punto il suo sguardo fuori dalla scena quasi a interloquire con chi sta ammirando l’affresco, la figura in questione pare l’unica donna in questa illustre adunata maschile di menti eccelse e in proposito le interpretazioni sono discordanti: per alcuni avrebbe le fattezze di un nipote di Papa Giulio II per altri si tratterebbe di Ipazia d’Alessandria, filosofa neo-platonica, matematica e astronoma del IV secolo assassinata da una folla di cristiani in tumulto; tuttavia potrebbe trattarsi di una figura del tutto allegorica, rappresentante la kalokagathìa, un’espressione che nella cultura greca del V secolo a.C. indicava l’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo.
Protagonisti assoluti sono tuttavia i due principali filosofi dell’Atene di V-IV secolo a.C., Platone e Aristotele: al centro il primo, che punta con un dito verso l’alto e tiene in mano il suo libro Timeo, fiancheggiato dal secondo con l’Etica; l’uno viene dipinto addirittura con le fattezze di Leonardo da Vinci, mentre l’altro con quelle dell’architetto e scenografo Bastiano da Sangallo, che era soprannominato proprio “Aristotile” per il suo carattere serio e pensieroso. In primo piano, un po’ in disparte, appoggiato a un blocco di marmo, intento a scrivere su un foglio, spicca anche la figura del filosofo pessimista Eraclito, che l’Urbinate dipinge con le fattezze di Michelangelo per omaggiare l’autore degli affreschi della vicina Cappella Sistina. Ma troviamo lo stesso Sanzio, quasi nascosto nella folla di figure, lì, all’estrema destra, lo possiamo identificare nel personaggio con il berretto nero: quello è l’autoritratto di Raffaello.
Sara Foti Sciavaliere
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