Da un paesino di provincia, Filippo parte alla scoperta del mondo senza saper parlare inglese. In Australia, una terribile tragedia lo fa cadere in depressione. Ma la sua incredibile forza d’animo lo fa rialzare. Oggi vive con la fidanzata tra Australia e Indonesia, parla inglese come un madrelingua e sta realizzando il suo ikigai.
Filippo ha trentadue anni, è nato a Vezzano Ligure, in provincia di La Spezia. «I miei genitori non navigavano nell’oro, ma non mi hanno mai fatto mancare niente, ho sempre avuto tutto quello che volevo. Sono stato molto fortunato ad avere genitori come i miei.» Amato e coccolato, Filippo trascorre la sua infanzia giocando a calcio per le strade tranquille e sicure del paese. Cresce con il solito piccolo gruppo di amici, per poi intraprendere il suo primo vero grande “viaggio” verso la città per andare alle scuole superiori.
Verso la città.
«Allontanarsi dal paesello per andare in città è stato per me davvero il primo “viaggio all’estero”. Confuso, scelsi una scuola che non mi piaceva molto, il liceo scientifico. Fallii subito e fui bocciato in prima superiore.» Dopo la bocciatura, con l’appoggio dei genitori, Filippo cambia scuola e sceglie l’istituto tecnico geometri, dove trascorre cinque anni spensierati con quelli che lui definisce piccoli, normali problemi adolescenziali.
Il lavoro che ti cambia la vita.
Finita la scuola, Filippo inizia a lavorare in un ristorante in città. Fa il cameriere ma è molto timido, così viene spostato in cucina a lavare i piatti dove conosce Davide. Davide lo fa innamorare di questo lavoro e gli insegna tutto quello che oggi Filippo sa. Dopo poche settimane come lavapiatti e aiuto cuoco, Filippo inizia infatti la sua straordinaria esperienza da chef, ma ancora non sa che proprio questo lavoro lo porterà a vivere lontano.
Verso l’Inghilterra senza parlare inglese.
Dopo qualche anno di gavetta in Italia, Filippo si trasferisce a Londra. «Non avevo mai testato il mio inglese, ma credevo che sarebbe stato sufficiente quello studiato alle superiori. Sbagliavo! Sono stato catapultato in una grande città frenetica e dalle tante aspettative, per niente predisposta a facilitare il mio ingresso e aiutarmi a comunicare. Ricordo il mio primo colloquio di lavoro, lo chef mi chiese di tagliare delle zucchine alla julienne. Iniziai a tagliare. Dopo cinque minuti, lo chef si avvicina e mi dice: “Troppo grosse”. Dopo poco, torna e mi dice: “Troppo piccole. Puoi andare”. Sono uscito da quel ristorante disperato. Quel tizio mi aveva massacrato, dando un bello schiaffo a tutto il mio entusiasmo. Cercai però di non darmi per vinto. Dopo poche ore, ebbi infatti la fortuna di trovare un altro lavoro, sempre in un ristorante, dove conobbi Vince, grande chef e grande uomo, nativo di Londra.
La difficoltà e il bisogno di comunicare.
«Il mio inglese scolastico continuava a non essere sufficiente a capire una sola parola di quello che Vince diceva. Rispondevo sempre: “Yes, chef!”, senza sapere assolutamente cosa in realtà avesse detto. Per fortuna avevo due colleghi italiani che mi presero a cuore e mi aiutarono a inserirmi. Quando sei all’estero e incontri persone italiane, specialmente all’inizio, instauri rapporti che legano profondamente, che difficilmente potresti creare nel tuo paese di origine. Ti senti a casa per il solo semplice fatto di riuscire a capire e farti capire mentre sei isolato dalle conversazioni più semplici.»
Verso l’Africa, il paese che ti cambia dentro.
Dopo un anno in Inghilterra, Filippo torna in Italia e, mosso dal suo solito entusiasmo, decide di aprire un locale a La Spezia con i soldi che aveva messo da parte. Il locale però fallisce dopo poco tempo, lasciando diversi debiti a Filippo che, divorato dal senso di colpa e di fallimento, cade in depressione. I genitori fanno qualsiasi cosa per aiutarlo a ripagare i debiti e, una volta sistemata la faccenda, con zero soldi si trasferisce a Zanzibar, in Tanzania, dove trova lavoro in un resort a cinque stelle. Filippo è l’unico italiano in cucina e per la prima volta abbraccia una cultura lontana dalla sua. «Mi sono avvicinato a un mondo che è incredibilmente felice con niente. Questi fratelli africani mi hanno aperto le porte delle loro case, mi hanno dato tutto pur non avendo niente. Per la prima volta mi sono sentito a casa e ho capito una cosa: quando viaggi in continenti più poveri, quelli del “terzo mondo”, ti rendi conto di cosa è importante davvero nella vita.»
Gli stereotipi della società.
Prima di partire per la Tanzania ero un ragazzo che stava attento al colore o alle marche dei vestiti, dovevo essere sempre in ordine. Mia mamma mi dice sempre che sembravo un principe. In Africa ho capito che i vestiti sono solo vestiti. Viaggiare ti fa crescere, ti apre la mente. Sono nato in una società che ci insegna che dobbiamo sempre fare qualcosa, dobbiamo sempre essere occupati. Vai a scuola, dopo la scuola devi studiare, o se non studi devi lavorare, e se non fai una di queste sei un nullafacente. Dopo che trovi un lavoro magari devi anche comprare casa, devi sposarti, devi avere un figlio, altrimenti la società ti fa sentire diverso e sbagliato. Questa è purtroppo la mentalità europea. Ecco, viaggiare ti insegna a conoscere te stesso nella tua personale individualità, spogliato dal contesto in cui sei inserito. Ti aiuta a capire perché sei venuto al mondo, ti fa realizzare quello che i buddisti chiamano ikigai, ovvero il tuo scopo di vita.»
Trovare una ragione per alzarsi ogni mattina.
Ikigai è un termine giapponese che significa “ragione per alzarsi la mattina”. Si riferisce all’avere uno scopo nella vita che la renda degna di essere vissuta. Ognuno ha il suo ikigai, occorre trovarlo e svilupparlo. A differenza della cultura occidentale che ci vuole sempre impegnati e proiettati nel futuro e nella progettualità, l’ikigai ci insegna a concentrarci sull’essenza del singolo giorno. Questo non significa non avere obiettivi, bensì cambiare approccio nel loro raggiungimento.
Per avere una vita felice, dobbiamo prima capire cosa amiamo fare, poi dobbiamo capire in cosa siamo bravi e cosa potremmo trasformare in professione, e continuare a lavorare su questo, giorno dopo giorno, concentrandosi sul qui e ora. D’altronde, il futuro è fatto di tanti giorni presenti e conta quello che facciamo adesso, conta come ci sentiamo in questo preciso momento e cosa stiamo facendo per essere davvero felici. Parlare di noi stessi in modo negativo è una forma subdola di auto-sabotaggio che ci allontana dal realizzare i nostri sogni. Al contrario, accettare e avere una visione positiva di noi stessi e di ciò che accade, ci aiuta ad attrarre altrettanta positività.
Verso un nuovo paese per capire cosa non vuoi.
Dopo l’Africa, Filippo si trasferisce a New York, sempre lavorando in un ristorante. «New York ti devasta, ti uccide lentamente. C’è chi la ama. Io invece mi sentivo come un numero in mezzo alla massa: code per andare al lavoro, treni strapieni di persone che si ammassano l’uno con l’altro, una città con tante opportunità ma, per quanto mi riguarda, una città finta, con tanta apparenza e tanta finzione. Forse è per questo che non mi sono innamorato di New York. Ho avuto certamente momenti belli anche lì, ma quell’esperienza mi ha insegnato cosa non voglio: la città.»
Verso l’Australia, gioie e dolori.
È il 2019 quando Filippo arriva finalmente in Australia. Ha capito che la città non fa per lui, così va a vivere a Milton, un piccolo villaggio a sud di Sydney. Qui trova lavoro in un ristorante italiano dove, durante una cena preparata per gli sfollati dei bushfire – gli incendi boschivi – conosce Stephen, australiano di settantadue anni che ha appena perso casa nel fuoco. Stephen ha vissuto qualche anno in Italia e parla ancora un po’ di italiano, mentre Filippo inizia a masticare l’inglese.
«Nonostante le altre esperienze all’estero, l’inglese continuava a non essere il mio forte. Parlavo inglese, certo, ma a breve avrei dovuto sottopormi a un test di inglese per il mio sponsorship e non ero assolutamente pronto. Stephen aveva lavorato per quarant’anni come professore di inglese e si offrì di aiutarmi, così cominciammo a fare delle lezioni insieme e a diventare amici. A quel tempo vivevo in un una piccola casa con due italiani. La mia stanza era composta da un lettino singolo e un separé in un angolo nella living room.
Non la situazione migliore! Stephen non era sposato, non aveva figli e il governo gli aveva dato una casa in affitto gratis molto grande, così mi offrì di andare a vivere da lui. Accettai. La mia vita in Australia andava a gonfie vele, stavo creando tantissime nuove amicizie e mi sentivo una persona nuova. Iniziai finalmente a parlare l’inglese in modo fluente. Dopo poco tempo iniziai addirittura a pensare in inglese! Anni prima, se qualcuno me lo avesse detto, avrei risposto che sarebbe stato impossibile.»
Viaggiare rende la mente elastica.
«Quando una persona parla una lingua molto bene, tanto da pensare in tale lingua, possiamo chiamarla bilingue. A quel punto, la persona sviluppa una specie di nuova personalità. Non è solo una mia opinione! Esistono studi scientifici sul relativismo linguistico. Se è vero che i bambini sviluppano diverse visioni del mondo e modi di comunicare le emozioni in base alla lingua che apprendono, è anche vero che imparando una nuova lingua la mente diventa più elastica e versatile, si apre non solo a nuovi processi di apprendimento, ma anche a culture e modi di pensare totalmente differenti che influenzano il modo di pensare, comunicare e agire. Il Filippo che conoscono i miei amici italiani è completamente diverso dal Filippo che conoscono le persone australiane. Eppure sono sempre io.»
La depressione.
Filippo stringe una profonda amicizia anche con il nipote di Stephen, Shindo. I due, quasi coetanei, partono e si traferiscono a Narrawallee, dove affittano una casa sul mare. Passa così un anno di convivenza e di esperienze straordinarie fino a quando, un lunedì mattina dopo un weekend movimentato, Filippo trova Shindo morto in camera sua. «Ricordo quel giorno con tanto, tanto dolore. Non volevo che gli altri si sentissero male per me. Volevo essere e farmi vedere forte. Ma più mi mostravo forte, più mi sentivo piccolo. Fu terribile.
Quando stai tanto male e sei lontano da casa, puoi sentirti veramente solo.
Dopo la morte di Shindo ho continuato a lavorare nel ristorante, ma la depressione era molto forte. Non ero più contento, ero scorbutico e mi lamentavo sempre. Sono arrivato persino a litigare con il mio capo. Mi sono dimostrato una persona immatura, ma anche questa esperienza mi ha fatto crescere. La morte di Shindo è stata una tragedia, un dolore atroce per me ma, purtroppo o per fortuna, questa esperienza mi ha portato a essere la persona che sono oggi. Credo che ogni brutta esperienza possa essere una possibilità per crescere, per evolversi e per diventare persone migliori. Sta a noi scegliere come affrontarla.»
Rinascere dal dolore come persone migliori.
La rinascita di Filippo è lenta e dolorosa. Dopo tre anni di depressione, piano piano inizia a risalire. Comincia a dedicarsi a sé stesso e alla sua salute mentale, si sveglia presto ogni mattina e fa una lunga camminata per salutare il nuovo giorno che lo attende, mangia sano, smette di fumare. La sua energia cambia incredibilmente, sorride alle persone e sorride di nuovo alla vita. «Manifesto quello che voglio e si realizza. Cerco connessioni con le persone, le ascolto, e mi allontano da quelle negative. Se vi sentite stanchi o depressi, se potete, andate a vivere vicino a una spiaggia. Fatelo. Camminate tutte le mattine in riva al mare, e se non potete avere il mare, camminate ugualmente. State in mezzo alla natura, e prendetevi cura del vostro corpo, vi sentirete un’altra persona.»
Chi ama sé stesso può amare in modo sano anche gli altri.
È quando Filippo ha trovato il suo equilibrio che conosce Lucy, ragazza australiana di cui si innamora. Accomunati dalle stesse passioni, viaggiano in giro per il mondo. La loro base rimane in Australia ma al momento si trovano da diversi mesi in Indonesia, a Lombok. «Sono sempre alla ricerca di novità, sento un bisogno costante di vedere cose nuove, persone nuove, cibi nuovi, nuove culture, nuove religioni, parlare nuove lingue e, soprattutto, ascoltare nuove storie! Con Lucy non devo rinunciare a nessuna di queste cose. Le viviamo insieme.»
Credi che viaggiare per una donna sia più pericoloso?
«Secondo la mia esperienza personale, posso dire che purtroppo in alcuni paesi una donna può sentirsi non in pericolo ma molto più in soggezione rispetto un uomo. Recentemente, in Egitto, ci siamo ritrovati in un mercato locale dove la mia ragazza aveva gli occhi di tutti gli uomini presenti puntati addosso. Ogni persona mi chiamava “lucky guy”, e l’energia che sentivamo non era delle migliori.
Da uomo posso dire che apprezzo molto le donne che viaggiano da sole, hanno più coraggio di noi maschi! Sono anche però dell’idea che il mondo è paese e non ci sono posti o popoli più pericolosi di altri. Per una donna può essere un po’ più “pericoloso” viaggiare di un uomo? Magari sì! Ma i pericoli possono essere ovunque: puoi essere in pericolo nella tua città, a casa tua, come in un piccolo paese dell’Africa. Si deve stare attenti, certo, e soprattutto rispettare le culture diverse dalle nostre ma, solitamente, se dai amore riceverai amore. Sorridi e tutto intorno a te ti sorriderà.»
Cosa diresti a chi sogna di viaggiare ma ha paura di partire?
«Parti, viaggia, conosci più persone che puoi, parla con loro, bevi quello che bevono, mangia quello che mangiano. C’è troppa ignoranza nel mondo dove siamo cresciuti, e anche troppa paura. Siamo cresciuti con la paura! Quando viaggi ti rendi conto di quanto è bello il mondo dove viviamo. Al momento, la cosa più bella dell’Indonesia è proprio il sorriso di questo popolo incredibile. La domanda che mi fanno sempre è: “Where are you from?” e mi piace rispondere che vengo dal Pianeta Terra.
Quello che voglio dirti è che non importa da dove vieni o di che colore è la tua pelle, se sei uomo o donna, perché siamo tutti una sola cosa, una grande famiglia. Il viaggio mi ha permesso di essere una persona migliore, più connesso con la natura, gli animali, le persone. Spero di fare ancora tanti sbagli così da poter continuare a migliorarmi. E se hai paura perché non parli inglese, rileggi questa storia. Un mio amico mi ha insegnato questo detto, e te lo dico volutamente in inglese: “This is good, but the is going to be better, and better and better and better!”».
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