Una delle quattro zone che definiscono la geografia del Kurdistan, un’area tra il nord e il sud est della Mesopotamia, è il Rojava, regione nordorientale della Siria. Da qui parte il nostro racconto, quello di Asia Ramazan Antar, nota anche con lo pseudonimo di Viyan Antar.
Asia nasce in una famiglia curda, come molte si sposa giovanissima, rimanendo così invischiata in un matrimonio combinato. Ma la sua vicenda, a un certo punto, prende una strada diversa rispetto all’essere solo moglie e un domani madre sottomessa, essa si intreccia con quella dell’amata Rojava, terra ricca di fascino e intrisa di una storia che si perde nella notte dei tempi e che farebbe brillare gli occhi a qualsiasi archeologo. Il Rojava, nel 2012, diviene una regione autonoma de facto, capitale Qamishlo, e tra i diversi partiti che la compongono vi è il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), leader Apo Abdullah Ocalan, il cui motto sin dall’inizio è stato: “Un Paese non può essere libero se le donne non sono libere.” Questa frase dirompente, e non solo per le regioni mediorientali, dà la spinta propulsiva alle donne per riappropriarsi della loro vita e della loro dignità di essere umani e la giovane Asia è una di loro. Divorzia dal marito e si unisce al YPJ – Unità di protezione delle donne -, siamo nel 2014, con l’ideale di lottare per l’emancipazione delle donne dalle mani dell’oppressione patriarcale.
Le vittorie di questo esercito tutto al femminile attrae una considerevole attenzione mediatica e di Asia veniamo a sapere proprio attraverso una sua immagine immortalata in uno scatto da una fotogiornalista nel 2015, mentre combatte contro le forze dell’ISIS. L’immagine, che ritrae una giovane guerrigliera, vestita con abiti militari che porta in spalla un’arma, fa il giro del mondo, ma più che sottolineare il sacrificio, la determinazione, l’abnegazione a una causa che può condurla alla morte – in un’età in cui una ragazza dovrebbe poter condurre una vita in cui forse il dramma più alto potrebbe essere un amore non corrisposto o cercare di ripianare uno screzio tra amiche -, i media si soffermano sull’avvenenza fisica di questa giovane donna e sulla sua impressionante somiglianza con due attrici molto famose: Angelina Jolie e Penelope Cruz.
Che cosa non riusciamo a comprendere? Quale machiavellico pensiero ci porta a guardare una donna solo ed esclusivamente con un occhio edonistico? Perché non si riesce ad andare oltre?
Eppure ciò che le guerrigliere raccontano sulla loro vita da combattenti non lascia spazio agli equivoci, non sono le eroine classiche che noi occidentali abbiamo conosciuto attraverso Omero, Virgilio, Tasso, sono donne reali che combattono una guerra reale e cruenta. Per essere ammesse al YPJ bisogna rinunciare a tutto, la vita privata, così come gli svaghi, sono banditi: regole ferree ed essenziali se si vuole sopravvivere, la guerra, dicono, non ammette distrazioni. Queste donne sono consapevoli che potranno essere catturate, ma sanno anche che dalla loro bocca non dovrà mai uscire il nome delle altre compagne, nonostante le torture e gli stupri a cui sicuramente verranno sottoposte, la morte forse sarebbe più auspicabile. Antar ha accettato tutto questo fino a morirne. Viene uccisa a Manbji, nel 2016, mentre lotta per liberare questa città dalla morsa dello Stato islamico, aveva solo 20 anni. Ma come pensano di intitolare i loro pezzi i media? “L’Angelina Jolie curda è morta.” Molte attiviste curde si sono schierate apertamente contro la stampa occidentale, accusandola di trattare la donna solo come un mero oggetto sessuale; tutte sono state concordi nel sottolineare come nessuno ha parlato del sacrificio di Viyan, del perché avesse scelto quel tipo di vita che l’aveva condotta a morire.
La loro indignazione è la mia: ammetto che non conoscevo la storia di Asia e mentre facevo le ricerche per l’articolo, imbattendomi in questo titolo, ho avuto immediatamente un moto di repulsione e frustrazione, conscia del fatto che in maniera del tutto trasversale, uomini e donne non riescono a estraniarsi e a emanciparsi da una visione femminile in cui la bellezza è il motore di ogni cosa in qualsiasi ambito.
Viyan era una giovane donna, bella è vero, molto bella, ma può la sua avvenenza fisica prendere il sopravvento sulle sue azioni?
Può questa dirottare l’attenzione dell’intera opinione pubblica occidentale, che spesso si erge a paladina dei diritti e della parità delle donne, indignandosi grandemente quando vengono alla luce episodi di sopraffazione nei confronti del genere femminile, dalla vera storia che le imprese di Asia, così come delle sue compagne, rappresentano? Sono sicura che la risposta che sta affiorando sulle labbra di chi sta leggendo queste righe è un NO chiaro, cristallino, che non dovrebbe dare alcun adito a fraintendimenti. La realtà è un’altra e sino a quando chi fa il nostro mestiere non porrà l’attenzione su ciò che realmente conta e non abbraccerà la folle idea che le donne sono prima di tutto esseri umani i quali devono essere raccontati per ciò che fanno, non per come appaiono, i meccanismi mentali di entrambi i sessi non si libereranno mai di stereotipi di pensiero che con un’evidenza sconcertante tanto obsoleti non sono.
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