Il CISDA sostiene da sempre le donne afghane, come fanno le diverse associazioni interne al Paese, con le quali il CISDA collabora. Purtroppo le immagini di ciò che sta accadendo in Afghanistan sono sotto gli occhi di tutti e chi sta pagando il prezzo più alto sono proprio le donne. Ne abbiamo parlato con Giulia Rodari, vicepresidente dell’associazione. Questo il suo racconto.
Buongiorno Giulia, grazie innanzitutto per averci concesso l’intervista in un momento in cui sarete particolarmente sotto stress.
Grazie a voi per averci contattato, e sì il momento è decisamente concitato.
Partiamo dall’inizio: come nasce CISDA e perché?
Cisda – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane – è un’associazione di volontariato nata nel 2004 al fine di promuovere progetti di solidarietà e sostegno in favore delle donne afghane.
Un primo nucleo di donne era già attivo nel 1999 e ha portato all’invito di due organizzazioni afghane all’ONU dei Popoli di Perugia: RAWA – Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan fondata nel 1977 e HAWCA – Assistenza umanitaria per le donne e i bambini dell’Afghanistan costituita proprio nel 1999. L’idea era quella di portare sostegno e aiuto ad associazioni come la nostra che lavoravano direttamente sul territorio.
Qual è il vostro ruolo come associazione sia in Italia sia all’estero?
Poggiamo la nostra azione su due pilastri paralleli: sostegno umanitario e attività politica. Non esiste progetto di sostegno umanitario riguardante i diversi servizi essenziali che non abbia come fine l’attivazione di percorsi di consapevolizzazione sociale e politica. La nostra relazione con i nostri partner afghani è totalmente paritaria: con loro condividiamo progetti concreti e risultati, analisi e lettura dei contesti della realtà locale e internazionale, nel solco di uno scambio continuo di visioni ed esperienze.
“Il nucleo iniziale è stato costituito da un gruppo di “Donne in Nero” che ha invitato le donne afghane di due associazioni (RAWA e HAWCA) all’Onu dei Popoli di Perugia.” Chi sono le “Donne in Nero”? Perché si definiscono tali?
Donne in nero è una rete mondiale di donne impegnate per la pace con giustizia e che si oppongono attivamente all’ingiustizia, alla guerra, al militarismo e ad altre forme di violenza. È nata da alcune donne israeliane, in seguito alla prima intifada, nel 1988, per protestare contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Sono ancora attive in molti luoghi del mondo (ex Jugoslavia, Italia, Colombia…).
In questo inciso, preso dal vostro “Chi siamo”, vengono menzionate due associazioni di donne afghane, RAWA e HAWCA. Chi sono e come operano sul loro territorio?
RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane), fondata a Kabul nel 1977 sotto la guida di Meena Keshwar Kemal, è una delle organizzazioni femminili afghane indipendenti più attive e affermate in campo sociale sia in Afghanistan sia in Pakistan tra i rifugiati afghani. Nel passato, da profughe in Pakistan, hanno aperto e gestito orfanotrofi, accompagnando centinaia di bambini a una crescita come membri attivi della società civile. Al ritorno in Afghanistan, hanno promosso assistenza sanitaria e corsi di alfabetizzazione per donne e ragazze afghane. In parallelo, consapevolizzavano le donne riguardo i loro diritti, la necessità della resistenza ai fondamentalisti, l’importanza dell’istruzione e della partecipazione sociale, oltre che sui principi della democrazia e delle libertà civili, e infine sui modi per risolvere la questione afghana, rispettando i diritti umani e delle donne in Afghanistan.
HAWCA (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) è un’organizzazione non governativa afghana. Incoraggia la partecipazione attiva delle donne e dei giovani nei processi di ricostruzione e lavora in collaborazione con le istituzioni e le organizzazioni che operano per lo sviluppo del Paese. Gestisce una casa protetta per donne maltrattate a Kabul e due centri di aiuto legale a Kabul e Herat. La casa protetta è una soluzione di aiuto temporaneo per quelle donne o ragazze che sono state abusate fisicamente o psicologicamente da parte di familiari, potenti membri della comunità o signori della guerra. Nel 2011 è stato attivato “Vite Preziose”, un progetto di adozione a distanza di una donna vittima di violenza: già diverse donne hanno potuto uscire dall’inferno delle loro case, prendersi cura di se stesse e ricostruirsi una vita. I centri di aiuto legale forniscono protezione e assistenza legale alle donne vittime di violenza, attraverso l’aiuto di giovani laureati in giurisprudenza.
Ma ci sono anche altre associazioni con cui collaboriamo:
OPAWC (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) è stata istituita nel 2003 da un gruppo di donne che volevano fare qualcosa di propositivo, concreto e realizzabile per l’empowerment delle donne afghane. Gestiscono l’Ospedale di Hamoon, progetto sanitario realizzato a Farah dal 2010, e organizzano corsi di alfabetizzazione e sartoria a Kabul.
SAAJS (Associazione Sociale per la Giustizia in Afghanistan) è un’associazione che lavora con i parenti delle vittime dei massacri compiuti in Afghanistan durante le guerre, affinché i criminali vengano giudicati nei tribunali.
AFCECO Children (Organizzazione per la formazione e la cura dei bambini) è un’organizzazione afghana non-profit basata a Kabul, attiva dal 2004 in Pakistan e dal 2008 in Afghanistan. Attualmente gestisce 11 orfanotrofi tra Kabul, Jalalabad, Herat e il Pakistan.
HAMBASTAGI (Partito Afghano della Solidarietà) è a oggi l’unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan. Lottano per un Afghanistan senza discriminazioni etniche, religiose, linguistiche e dove si possa vivere in unità e sicurezza. Conta 30.000 iscritti provenienti dalle diverse etnie presenti nel paese di cui 10.000 sono donne. Sua portavoce è Selay Ghaffar, prima fondatrice di HAWCA, protagonista del docufilm di I Am The Revolution di Benedetta Argentieri e indicata da D La Repubblica come una delle donne che cambiano il mondo.
DEFENCE COMMITTEE DI MALALAI JOYA è considerata una delle principali attiviste nel campo della difesa dei diritti umani e delle donne. Nel 2003, a soli 26 anni, fu eletta dai suoi concittadini come delegata alla Loya Jirga (Grande Assemblea) che doveva stilare la carta costituzionale del Paese. Già allora prese la parola e, in un coraggioso discorso, denunciò i crimini dei “signori della guerra” che controllavano, e ancora oggi controllano, la Loya Jirga e i posti di comando del Paese. Da quel giorno Malalai vive sotto scorta, è oggetto di continue minacce di morte e ha già subito vari attentati.
Potendo godere inoltre della presenza di attiviste in diverse zone d’Italia, ci occupiamo di realizzare iniziative di informazione e sensibilizzazione sulla situazione del Paese e sulle attività, come conferenze pubbliche, presentazioni di libri e filmati, incontri nelle scuole e cene di solidarietà. In parallelo svolgiamo attività di raccolta fondi per sostenere le organizzazioni e i progetti che sosteniamo in Afghanistan. Ogni anno, promuoviamo delegazioni in Afghanistan, composte da attiviste e giornaliste.
Alla luce di tutto quello che sta accadendo ora in Afghanistan, come si sta muovendo CISDA?
Attualmente il CISDA si sta primariamente occupando di due aspetti: fare informazione, gli oltre 20 anni di legami con l’Afghanistan e i contatti con gli attivisti delle forze democratiche afghane, ci consente di avere informazioni di prima mano; fare una corretta informazione e dar loro voce, soprattutto in un momento in cui sono sottoposti a così alto rischio di vita, è la nostra missione primaria. L’Afghanistan è un territorio di importanza strategica fondamentale ed è facile che le informazioni circolino in maniera poco trasparente e siano, talvolta, manipolate. Poi facciamo anche raccolte di fondi. Per far fronte all’emergenza degli sfollati, a seguito dei primi combattimenti, e rispondere alle prime esigenze essenziali.
Le associazioni di donne afghane menzionate sopra riescono ancora a cooperare nelle loro zone? Siete in contatto tra voi?
Non appena si è reso evidente che la situazione stesse precipitando, le associazioni hanno avuto la priorità di mettere in sicurezza le persone con cui lavorano. È certo che vogliano portare avanti le loro attività, anzi sono ancora più determinate di prima, ma sanno bene di dover entrare in clandestinità per farlo: trascorsi così pochi giorni dalla presa di Kabul, hanno sicuramente bisogno di tempo per riorganizzarsi e capire cosa significherà questo nuovo regime talebano. Seppur già abbia dato segno di essere ben poco diverso dal precedente.
Com’è la situazione attuale?
È un incubo: la gente è disperata, sono girate ovunque le immagini delle numerose persone che da giorni stanno cercando di scappare dall’Afghanistan. Fuori dall’aeroporto di Kabul c’era più di un chilometro di coda di persone ammassate che si spintonano per cercare di raggiungere il gate da cui partire e, seppur tra queste ce ne fosse qualcuna già stata autorizzata alla partenza, non ci è riuscita. Altri stanno cercando di scappare via terra raggiungendo il Pakistan attraverso la provincia di Kandahar.
Nonostante l’attentato ISIS di giovedì sera all’aeroporto, che ha causato quasi 200 morti, tante sono le persone che ancora sono tornate al gate nella speranza di poter partire. Nel mentre, i talebani si stanno impegnando a dare un’immagine moderna di sé, incontrando gruppi di lavoratrici e studentesse per rassicurarle rispetto alla prosecuzione del loro lavoro. Ma è chiaro che siano gli stessi mostri di allora. Hanno già imposto le prime terribili regole nelle province:
. non è permesso uscire senza Mahram, un maschio appartenente alla famiglia;
. le scuole e le università dei ragazzi e delle ragazze devono essere separate;
. le docenti donne possono insegnare solo nelle scuole femminili e i docenti uomini solo nelle scuole maschili;
. le donne e le ragazze devono indossare l’hijab o il burqa;
. le donne all’università possono studiare solo medicina e letteratura.
Ma la situazione è drammatica per tutti:
. gli impiegati governativi sono senza stipendio da due mesi;
. le banche hanno appena riaperto ma non sono in grado di pagare grandi somme di denaro ai propri clienti a causa della mancanza di contanti dalla Banca Centrale dell’Afghanistan;
. la maggior parte dei mercati e dei negozi è chiusa;
. per le strade si vedono poche donne, portano tutte almeno l’hijab, e quelle poche che si sono recate a lavoro sono state respinte;
. i talebani stanno andando a prendere uno a uno, casa per casa, i “traditori” e le “traditrici”.
Sono anche già entrati nell’Afghanistan National Institute of Music per distruggere gli strumenti musicali e impedire di nuovo la musica.
Ma questo esito era ben atteso, dall’avvio delle trattative di pace di Doha. Così, gli Stati Uniti e le potenze occidentali hanno lasciato loro il potere, riaccreditandoli. Il collasso dell’esercito afghano è stato possibile per il tradimento di chi stava ai vertici militari e politici: molte unità dell’esercito si sono arrese senza sparare un colpo perché è stato loro ordinato.
Facciamo un passo indietro: si parla sempre dei grandi centri. Ma nelle zone rurali quanto si è respirata aria di emancipazione e libertà in questi ultimi vent’anni.
Negli scorsi 20 anni all’interno delle città c’erano state delle aperture per le donne seppur con alto rischio di attentati, ma per le fasce più povere della popolazione residenti nelle zone rurali i progressi sono stati in effetti ben pochi. Matrimoni forzati, spesso da minorenni, violenze di ogni genere, stupri. Andare a scuola era inusuale e pericoloso: l’87% delle donne è analfabeta e il 66% delle ragazze tra i 12 e i 15 anni non ha potuto frequentare la scuola. In tutte le province lo sviluppo delle colture di oppio sono aumentate a dismisura, così come anche la sua raffinazione, che prima veniva effettuata fuori dal Paese. Di fatto è stato un narco-Stato con interessi economici legati alle mafie con la complicità delle potenze occupanti. I piccoli proprietari sono stati costretti a cedere i propri terreni perché venissero coltivati a oppio. La tossicodipendenza, da sempre una piaga dell’Afghanistan, è ancora aumentata: a Kabul c’è un ponte “famoso” per il raduno di tossicodipendenti per il consumo, il Pule Sukhta. Sono circa 2,5 milioni i consumatori di cui 800 mila sono donne e 100 mila bambini. Il 40% di questi ne è dipendente.
Dall’inizio dell’occupazione americana sono arrivate moltissime risorse dalla comunità internazionale destinati a sostegni militari ma anche alla ricostruzione e all’empowerment, senza che si siano ottenuti però risultati tangibili. Buona parte dei fondi sono finiti in corruzione. Come denunciava Malalai Joya già nel 2005 alla Loya Jirga in cui era stata eletta, il Parlamento era già composto da fondamentalisti non di molto migliori dei talebani. Ma la totale dipendenza finanziaria dall’Occidente li aveva costretti a venire a patti. Il vero problema è che le poche forze democratiche del Paese, costituitesi anche in Hambastagi, il Partito Afghano della Solidarietà (l’unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan), non sono mai state considerate un interlocutore. Nonostante l’importantissimo lavoro sociale e politico che hanno portato avanti in più di 40 anni, come descritto sopra.
L’annuncio del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan era noto, ma quanto sentore c’era tra la popolazione, e tra le donne in particolare, che questo avrebbe portato a un blitz istantaneo dei talebani per riappropriarsi di quei territori.
Non si aspettavano sicuramente così tanta rapidità, pensavano di avere più tempo, ma è dall’avvio degli accordi di Doha tra USA e talebani che le associazioni afghane ripetono quali ne sarebbero stati gli esiti. Le tre donne che i talebani si sono portati nelle trattative erano semplicemente una maschera della loro vera natura. Il governo si è reso sempre più debole e impopolare, sostenuto solo dagli eserciti occidentali finché hanno deciso di regalare la vittoria ai talebani per poter uscire da questa ventennale guerra in modo apparentemente pacifico.
In che modo ora si può aiutare l’associazione CISDA?
Le priorità ora sono: diffondere una corretta informazione e saper dare voce alle forze democratiche, in particolare quelle di donne, che hanno scelto di restare nel Paese e continuare la loro resistenza per uno stato laico e democratico. Si può fare su internet o di persona, organizzando eventi, a cui avremo piacere di partecipare in remoto o di persona. È fondamentale, per loro, sapere che non sono sole; sostenere l’emergenza attraverso una donazione:
BANCA POPOLARE ETICA – Agenzia Via Scarlatti 31 – Milano
Conto corrente n. 113666 – CIN U – ABI 5018 – CAB 1600
IBAN: IT64U0501801600000000113666
causale: Donazione liberale Emergenza Afghanistan
La foto in evidenza è stata scattata dalla reporter e membro CISDA Carla Dazzi (ndr)
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