Continueremo a parlare di Afghanistan ancora per molto tempo. Consapevoli che i riflettori potrebbero spegnersi da un momento all’altro, è doveroso proseguire e lasciare accesa la luce della conoscenza, anche di quei particolari che fanno poco clamore. Ma che, al contrario, sui social smuovono le acque.

Ci si interroga molto spesso sul destino delle donne afghane. Ora che i talebani hanno annunciato il loro governo (tra non pochi problemi interni), la preoccupazione maggiore è che per le donne si torni indietro di anni e anni, a quando vagavano soltanto come fantasmi e non contavano praticamente nulla.

Una voce per tutte

Certo è che le nostre vite, nella parte “fortunata” del mondo, sono andate avanti. Dopo aver seguito col fiato sospeso il rientro dei nostri connazionali da Kabul e dopo aver sofferto guardando le immagini strazianti di un popolo che voleva soltanto scappare e mettersi in salvo, siamo ritornati alle nostre vite quotidiane. Il corso della storia è anche questo: riprendere a vivere consapevoli delle tragedie che ci circondano. Lo abbiamo fatto anche dopo aver visto crollare le Torri Gemelle nel 2001. Piangemmo e ci interrogammo sulle possibili conseguenze ma, il giorno dopo, tornammo alle nostre occupazioni. Non voltammo però la testa. Anzi, ciascuno di noi lanciò un grido per far sentire la propria voce. Esattamente come siamo intenzionati a fare adesso.

Non le lasceremo sole

Il popolo afghano non conosce riposo. Dalla guerra sovietica- afghana, al controllo dei talebani, fino alla “vendetta” degli americani a seguito degli attacchi del 2001 al cuore dell’occidente. Un popolo piegato e spezzato da regimi che ci riportano quasi a un medioevo catapultato in epoca più recente. A farne le spese, sono sempre i più deboli: donne e bambini. Ma le donne non sono deboli, piuttosto debilitate da oppressione e segregazione. Una voce loro ce l’hanno e la dimostrazione sono stati gli ultimi venti anni in cui molte di loro sono diventate imprenditrici, si sono istruite, tentando di tenere quei passi che molte donne occidentali danno per scontati.

Una questione di colori

Il nostro compito è quello di dare voce a chi non ce l’ha. È un dovere morale, sociale e civico per chi scrive o redige dare voce a quelle donne che al contrario sono costrette al silenzio. Ma la voce passa anche attraverso le immagini, a volte. Anzi, in un’epoca social come la nostra le foto colpiscono all’occhio molto più di quanto non facessero un tempo. E scuotono le coscienze.

Impazza da giorni su twitter ed istangram un hashtag particolarmente significativo il #DoNotTouchMyClothes. Le donne afghane di tutto il mondo hanno iniziato a postare sui social foto di sé stesse in abiti tradizionali colorati e sgargianti, in contrapposizione alla legge talebana che le vorrebbe nascoste sotto anonimi e pesanti burqa. Il colore diventa dunque simbolo di protesta. Un tacito “non siete sole e l’opinione pubblica deve restare desta.”

Poi… Poi c’è il nero delle donne che invece sostengono le politiche dei talebani, sventolando la bandiera di questi ultimi. Una contrapposizione in termini che lascia sgomenti. Come a dire che esiste in ogni situazione una doppia faccia, come quel dio Giano che guarda il futuro e il passato. Sono forse le immagini che più ci lasciano in silenzio e che quindi le parole le sottraggono a noi. Donne vestite completamente di nero, irriconoscibili, fantasmi di sé stesse e spettri di un pericoloso passato futuro, tant’è che sorge la domanda spontanea “ma sono per davvero donne quelle infilate lì sotto?”.

Colori e il nero funereo. Sorrisi e volti occultati. Due modi differenti di reagire e operare che ci fanno ancora una volta ripetere: dobbiamo essere noi la voce di queste donne afghane smarrite e dal futuro incerto. Vogliamo, anzi, essere noi.

Ecco perché, nel nostro magazine, continueremo a parlarne in maniera diffusa. Facciamo sì che i riflettori non si spengano. Questa non è che una parentesi della Storia nella nostra storia. Come tante. Purtroppo. Ma ci siamo dentro e ci accerchia. Se abbiamo una voce, allora, continueremo a farla sentire anche per chi è stato messo a tacere in nome di quella libertà che non è un vanto ma bensì un prezioso beneficio.