img_8203Il film si colloca senz’altro nel genere biopic, ma con una cifra che lo distingue. La storia è pensata e il film girato e montato dal punto di vista di Van Gogh, con l’evidente e realizzato intento di mettere lo spettatore nella condizione d’immedesimarsi nel protagonista. Julian Schnabel prima che regista e sceneggiatore, è un pittore “espressionista d’oggi”, come lo definisce il critico Philippe Daverio. Di sé Schnabel ha detto: “Mi nutro di dissidi e contraddizioni. E’ dalla tensione dicotomica tra opposti che nasce l’equilibrio. Quando creo, mi abbandono all’intuito, mi lascio trascinare dalla forza di ciò che non posso comprendere. È una sottomissione, volontaria e prolifica, a forze invincibili e imperscrutabili. Allo stesso tempo, rincorro con esasperazione la novità e raccolgo, in modo inesausto, oggetti e materiali. Non posso rinunciare alla figurazione. Né all’astrazione. Se aderissi a un unico linguaggio mi sentirei imprigionato in una dimensione asfittica e stagnante.”(https://www.stilearte.it/julius-schabel-le-tele-immense-del-pittore-regista/). Sembra di sentire Van Gogh! “Perché devi dipingere sempre la natura?” domanda Gauguin nel film e lui: “Mi sento perso se non ho qualcosa da osservare!” Quanto questa sia risposta di Van Gogh o piuttosto del pittore-regista Schnabel poco importa. E’ chiara l’empatica immedesimazione tra regista e protagonista della storia. Un transfert che il regista fa di tutto per consentirlo anche allo spettatore, perciò gira molte scene usando la macchina da presa come fosse l’occhio del protagonista e, siccome è lui a girare, è anche l’occhio del regista.

Tutte le scene girate con questa prospettiva sono restituite sullo schermo sfocate nella parte bassa (eccellente la fotografia): l’immagine complessiva diventa così l’esplicitazione della lotta interiore sempre in atto nell’artistatra ciò che vede e ciò che sente nel guardare, tra l’immagine che la mente gli costruisce e la figurazione verso cui emozioni e spirito lo spingono. All’inizio del film mi sono sentito infastidito da quelle immagini e mi sono ritrovato a tentare di mettere a fuoco. Per fortuna ho preso presto consapevolezza del mio fastidio e me ne sono domandato, concludendoappunto che Schnabel ha cercato di rivivere e far rivivere anche allo spettatore quella lotta interiore, lo sforzo titanico che bisogna compiere per mettere a fuoco la realtà materiale col proprio sentire. E all’inizio sempre tutto appare nebuloso, come nelle immagini, perché la mente… mente. Van Gogh e Schnabel non si accontentano di ciò che la mente gli propone, cercando e sforzandosi fino allo spasimo d’andare oltre e, col loro sentire, dentro le cose. Le loro opere divengono il magnifico risultato di questa ricerca. Una ricerca che fece passare per folle Van Gogh, non più ovviamente Schnabel grazie a Van Gogh! Ma, in realtà, questi era folle (e Schnabel sarebbe folle) esattamente quanto era acerba l’uva della volpe di Esopo. Infatti non lo era, ma tutti (la volpe) ritenevano che lo fosse. Il motivo è semplice, ce lo dice Van Gogh all’inizio del film con la sua voce fuori campo e a schermo nero: “Ciò che voglio è essere uno di loro!”, più o meno queste sono le sue parole. Ed è quello che ciascuno di noi nella sua vita vuole e cerca: essere accettato. Perciò poi ci sembra folle chi percorre a piedi e in solitudine, quasi perso, chilometri nella campagna con sulle spalle il peso degli strumenti per dipingere, alla ricerca di non sapeva neppure lui cosa, ma che ogni volta trovava e ne era felice. Cosi com’era felice di tradurre sulla tela la sua figurazione e offrirla al mondo. Una felicità che avrebbe potuto condividere con ibambini se solo la maestra fosse stata in grado di sciogliere le reciproche paure invece di aizzarglieli contro, con la prevedibile conseguenza di aizzargli contro poi l’intero villaggio. Quel pittore è un folle! Così tutto va a posto: la comunità è salva, l’accettazione reciproca conservata, salvo il costante venticello del pettegolezzo che tutto tiene sotto controllo, immobile, frenato, ripetitivo, senza evoluzione. Il dramma del diverso non importa a nessuno, anzi è quasi sempre socialmente e individualmente affrancante.img_8204

 

Per fortuna ci sono stati e ci sono uomini e donne che hanno avuto e hanno il coraggio d’andare contro la corrente del farsi accettare a tutti i costi, fatta di senso comune, e di immergersi invece nella corrente dello spirito, indomito e sempre vivo. Tutti coloro che questo coraggio hanno avuto sono stati anche pienamente consapevoli della condizione umana. È ciò che il regista ci dice con l’accettazione e la proposizione dell’ipotesi dell’omicidio di Van Gogh invece del suicidio. Se solo per un attimo accettassimo l’ipotesi, potremmo anche comprenderne il senso e quanto il comportamento “omertoso” sia stato coerente ed in linea con la vita e le profonde convinzioni della vittima. Van Gogh aveva una profonda religiosità tutta rivolta al sociale. Sembrava quella all’inizio la sua vocazione; ma la strada gli fu preclusa dal suo modo di vivere sempre “eccessivo”. Non venne, infatti, confermato nell’incarico di predicatore nella regione mineraria belga del Borinage perché “aveva preso troppo alla lettera il modello evangelico”; ma nel frattempo aveva realizzato ‘I mangiatori di patate’ di cui andava molto fiero! Ebbene, come avrebbe potuto mai una persona tanto invisa a se stessa da annichilirsi e perciò essere allontanata da un incarico che pure aveva cercato, un artista che per tutta la sua vita è stato, in diverso modi, sempre alla costante ricerca di Dio, nelle persone prima e nella Natura poi, come avrebbe mai potuto denunciare dei ragazzi sapendo che avrebbe rovinato loro la vita? Certo nessuno gliel’avrebbe rimproverato, salvo poi vedere se gli avrebbero creduto; altrettanto certo è che non l’ha fatto. Il film narra solo gli ultimi due anni della tormentata vita di Van Gogh, ma chiarisce tutto il suo mondo interiore; spiega come la sua ricerca di Dio nella Natura lo abbia portato a cambiare l’uso dei colori fin lì conosciuto e adoperato e adutilizzare un modo di dipingere assolutamente nuovo. E sinceramente, dopo aver visto il film, non riuscirei adimmaginare altri che William Defoe come suo eccellente interprete. Di lui mi ha colpito un particolare. Paulus van Görlitz, coinquilino di Van Gogh a Dordrecht, scrisse che “Un giorno – ci conoscevamo da un mese – mi pregò, sempre col suo sorriso irresistibile…”. Ecco, il sorriso irresistibile, questo mi ha colpito: William Defoe evidentemente ce l’ha di suo, perché lo ha sfoggiato per tutto il film. Cruda, passionale, viscerale e poetica è, come il protagonista, la narrazione della storia di una lotta costante tra limiti umani e fuoco interiore, ch’è poi il dramma della condizione umana. Che quel genio fosse pienamente e lucidamente consapevole di questa lotta è evidente nel dialogo tra lui e il prete che gli fa visita per decidere se dovesse o meno rimanere in asilo psichiatrico. E lì Van Gogh sfoggia tutta la sua lucidità, la sua logica disarmante, la sua consapevolezza, quella consapevolezza che, se non tradita, colloca senz’altro “At Eternity’s Gate”. Film imperdibile. Ancora una volta Grazie! al Cinema Lovaglio di Venosa.

Francesco Topi