
Presentato alla Berlinale nella sezione Perspectives, How To Be Normal and the Oddness of the Other World di Florian Pochlatko è un tuffo intimo nelle visioni di una giovane mente tormentata.
Alle prese con un ricovero psichiatrico, Pia (Luisa-Céline Gaffron), la protagonista di How to Be Normal and the Oddness of the Other World, nutre il suo dialogo interiore di domande esistenziali, mentre ingurgita pillole colorate (antidepressivi e ansiolitici), e fatica a riconoscersi in un corpo (gonfiato dai medicinali) che risponde a tutto un insieme di stimoli, impossibili da distinguere. Il suo unico obiettivo è “essere normale”.
La ragazza nordica, bionda, con un taglio di capelli a caschetto, seduta scomodamente, ha il volto ricoperto di fette di formaggio. Questa immagine non lascia indifferenti, e richiama fortemente il corpo avvolto da garze bianche di Signe (Kristine Kujath Thorp), la protagonista della commedia dark scandinava che due anni fa sconvolse l’Europa, Sick of Myself (di Kristoffer Borgli).
Formalmente, i due film differiscono in tutto.
L’ordinato e luminoso minimalismo norvegese è l’esatto opposto dell’incessante susseguirsi di luci sgargianti a forte contrasto: le visioni e i ricordi di Pia.
Ma l’autolesionismo delle due protagoniste sembra essere il cuore delle vicende. Le due ventenni trovano delle corrispondenze inquietanti nelle loro ansie, la loro difficoltà di stare al mondo. Sono entrambe fautrici della loro malattia? Se Signe chiede al suo spacciatore di trovarle le droghe che le distruggeranno la figura, rendendola finalmente un “oggetto interessante”, Pia “sceglie di stare male in un mondo di infinite possibilità”. Ma quanta responsabilità può davvero avere il libero arbitrio sulla sanità mentale?
Davanti allo specchio, Pia non vede più il suo volto se non ricoperto dal prodotto caseario (di un giallo candido). Signe prova soddisfazione nel coprirsi di bende bianche: la sua rara condizione diventa motivo di attenzioni e fama. Questi due universi femminili sono costruiti intorno ad un’insoddisfazione sociale, in un mondo che si concentra sull’apparenza senza dare risposte, tantomeno indovinare le domande.
In How to Be Normal, incontriamo Pia proprio dove avevamo lasciato Signe, alle prese con la guarigione. E il processo di guarigione sembra corrispondere al rivivere confusamente una serie di esperienze che, come i video musicali degli anni ‘90, si intrecciano e trasformano tra consonanze cromatiche e bruschi stacchi. Il rapporto con il corpo, con il peso, con lo specchio, narrato in prima persona, riecheggia la voce di un’intera generazione, che ancor prima di interessarsi al proprio ruolo nel mondo, si perde nel cercare di rispondere a quanta massa corporea occupare nello spazio del mondo.
Questo dramedy psichedelico cerca disperatamente di esplorare una soggettività frammentata, femminile, succube dell’ininterrotto flusso di immagini assimilate negli anni. È un film a tratti troppo agitato, che trova il suo centro in un’irrequietezza vulnerabile: una solitudine che più si ribella alla sua essenza, più viene ricacciata nei suoi abissi. Il soliloquio deve interrompersi: solo le voci esterne possono aiutare.
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