
La nuova miniserie Netflix, Adolescence, mette in scena una tragedia contemporanea e riflette sulla responsabilità delle azioni e delle relazioni ai tempi dei social media.
Adolescence. Avete già sentito parlare di Andrew Tate? Se la risposta è no, sedetevi, perché abbiamo brutte notizie. Lo chiamano “il re della mascolinità tossica”, Tate (che, per qualche malsana ironia della sorte, è anche il nome di una delle case della cultura londinesi), l’ex-kickboxer, diventato poi influencer, è riuscito a creare un vero movimento maschilista, che promuove apertamente la violenza contro le donne. “La femmina appartiene al maschio”, sostiene l’infelice.
Bannato dai social media, accusato di stupro e sotto investigazione per traffico umano, Tate non è solo: i primi ad ascoltarlo sono stati i giovani, giovanissimi. In un articolo pubblicato da The Guardian più di un anno fa, si stimava che i ragazzi inglesi tra i 16 e i 29 anni sono meno aperti al femminismo degli uomini over 60. Un ragazzo su cinque è d’accordo con Tate. Ve l’avevo detto di sedervi.
Il punto di vista di un bambino.
Nella nuova miniserie Netflix, Adolescence, ambientata al giorno d’oggi nel Regno Unito, entriamo in questa triste ed angosciante realtà. Il protagonista è Jamie, un tredicenne che, come la maggior parte dei tredicenni, di anni ne dimostra otto o nove. È un bambino ed è anche un bel bambino: lineamenti delicati, pelle chiara, occhi e capelli scuri. “Diventerà un bel ragazzo”, viene da pensare, guardandolo. Invece Jamie a scuola viene bullizzato perché brutto. O meglio, bullizzato perché “il più brutto di tutti”. “Morirà vergine”, commentano le sue compagne, soprannominandolo “incel” – termine che appartiene al gergo della manosfera e che significa “involontariamente celibe”.
Povero ragazzo, non dev’essere facile frequentare un ambiente del genere quotidianamente, nel periodo più confuso e difficile della vita. Menomale che ha due genitori attenti, e dei professori ancora più presenti, pronti a notare cambiamenti, a tutelare le ingiustizie tra i banchi e i corridoi. Ed effettivamente, i genitori attenti e i professori presenti non sembrano mancare in questo microcosmo. Ma… non bastano.
Nella quiete e nella pace domestica Jamie è al sicuro. È questo il punto di vista dei genitori. Chiuso nella sua stanza, con una lucina accesa alla sera o nella notte: la certezza che l’adolescente non possa farsi del male, non possa incorrere in rischi imprevisti. Sappiamo bene, però, che nel 2025 non è certo l’interno o l’esterno a fare la differenza; basta avere una linea wi-fi.
Adolescence ha inizio con l’arresto di Jamie. È accusato di aver ucciso una sua compagna di classe, Katie Leonard. È veramente questo ragazzino mingherlino a essere l’assassino?
“Tutti ricorderanno il colpevole ma nessuno ricorderà lei.”
Ispirandosi a una storia vera, Stephen Graham (cosceneggiatore e coprotagonista della serie) cerca di capire il punto di vista di questa gioventù malata. Di più: cerca di dosare le responsabilità degli adulti, di metterle in discussione, di mostrare che i genitori dei nostri genitori non facevano lo stesso “mestiere”. Il mondo è cambiato e di conseguenza anche i rapporti. E se si parla tanto di come le relazioni (soprattutto amorose) siano messe alla prova ai tempi dei social, non si parla abbastanza di quanto anche le relazioni familiari vadano riadattate, riformulate.
I quattro episodi di Adolescence, girati con grande maestria, si distinguono proprio perché non fanno uso di montaggio: sono quattro piani sequenza. Tralasciando il valore estetico (e già soltanto i movimenti di macchina melliflui sono un piacere per gli occhi), questa scelta si allinea perfettamente all’obiettivo degli autori. Niente tagli, ogni dettaglio è importante. Il piano sequenza permette di riprendere la realtà il più fedelmente possibile. (Pensate alla Nouvelle Vague.) Se da un lato abbiamo la CCTV – inquadratura fissa, pronta a catturare tutto -, dall’altro siamo guidati da una macchina da presa che segue diversi personaggi, dalla casa, alla stazione di polizia, alla scuola.
Amara, amarissima, ma umana; troppo umana, forse? No. Necessaria.
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