Nella stanza da letto di qualsiasi donna dovrebbe esserci un baule di legno chiuso. Come quello sopra le mansarde dei film, dove le ragnatele avviluppate negli angoli sembrano capelli di bionda lanuggine grazie ai lucernari, lacunari affrescati di sogni che profumano di fiori d’arancio.

Perché le donne sono disposte a spendere tanto per un vestito solo? Che rapporto abbiamo con l’amore?
Penso abbia a che fare con noi, con la nostra espressione, che vuole restare fedele a quel momento di compiutezza, in cui uno strascico sembra leggero ed ogni taglio ci rappresenta. Potremmo invecchiare all’istante e aggrappare gli stessi sogni lisci insieme alla pelle.

Le mode sono cambiate: gli abiti destrutturati fanno tendenza, come se l’amore tronfio non si addicesse più alla praticità di oggi. Ma io ho sempre seguito la bellezza di quello che ho toccato con mano, di tutto quello che funzionava anche se gli altri dicevano che era out. Ali di farfalle nere che nessuno vuole, tranne la notte.

È una donna beffarda la moda: invita alla semplicità contro il too much, mentre Vogue vende le copertine della signora Apfel e del suo estro stiloso. Incalza a decidere il bello, ma il bello è tutto quello che ci emoziona.

Sono andata a comprare il mio abito da sposa una mattina fresca, senza portarmi niente appresso, neanche l’idea di me stessa. Il mio baule era vuoto. Volevo solo vestirmi di me, della mia nudità di donna, forte e fragile. Ho salito le scale di pietra dall’androne del palazzo e – a metà dei gradoni – mi sono fermata a guardare Napoli dall’alto: un mucchio di case mischiate e panni gonfi di vento, protesi ai tetti rossi di cielo, dove i gatti miagolano l’amore.

Tutto quello che vuole una donna è la stessa scena teatrale e nostalgica, intrisa di sentimenti veri.

Le sfilate oggi mostrano modelli di femminilità androgina. Come se la parità fra uomo e donna non contemplasse differenze e il vizio del vezzo non fosse più di moda; come se essere se stesse fosse qualcosa di ancestrale e le donne fossero donne oppure uomini; come se l’ambivalenza non fosse umana e geniale.
Ho provato anch’io ad essere diversa, composta, pensiero etereo, gonna di tulle.
Invece sono spessa e spettinata; silenzi grossi, come quelli che seguono un rullo di tamburi; frastuono nascosto in una discrezione che non inciampa, solo perché accavalla le gambe.
Ho scelto il mio vestito da sposa senza seguire la nuova primavera, solo quella del miei fregi (che non sono sempre gli anni).
Ho avuto a un punto l’impressione che il vestito mi avesse scelto e abbracciato, come un fantasma buono dal baule dei ricordi vecchi, chiedendo un aggiusto per dirsi perfetto.
La vita allo specchio non è quella che pensavamo, è più bella.
È spuntata all’improvviso, in un giorno di primavera.
È il tripudio in un momento, i sogni che tornano con l’odore dei libri vecchi riposti con cura, che il tempo non cambia.
Non è un ruolo cucito addosso quello che immagino: è il mio passo cadenzato nella navata della Chiesa, su un tempo passato già e non ancora appassito fra le dita.
Adesso so perché un vestito vale l’amore di un giorno solo. Dai tetti il sole è tramontato già ed io tornerei per vederlo. In fondo la vita è un momento. E in questo momento è la promessa di un fiore.