Una vera eccellenza del suo tempo, la rosa di Paestum deve il suo nome alla ninfa Roda, figlia di Poseidone e Afrodite, allegoria della primavera e dalla quale il nome antico del fiore per eccellenza: di fatto, rodon per i Greci, rosa per la civiltà latina.

Le rose pestane erano tanto pregiate da essere citate in qualità di termine di paragone, come faceva Marziale, per esempio, per descrivere la bellezza di chi raccontava nelle sue opere: “labbra rosse come le rose di Paestum” o “l’alito della fanciulla simile al profumo di un roseto di Paestum”.

Le leggende narrano che in origine fosse rossa, per il colore trasmesso ai petali da una goccia di sangue di Venere disperata per la morte di Adone, o, secondo altre tradizioni più delicate, per il rossore delle guance della dea della bellezza, sorpresa al bagno da Giove. Tra tutti i fiori il più amato, fu apprezzato nell’antichità per la sua bellezza, il suo profumo e le sue proprietà, un misto di virtù cosmetiche, medicinali e culinarie.

La “rosa damascena bifera” di Paestum.

Dal profumo intenso, sbocciava due volte l’anno – sia in primavera che in autunno -, una vera rarità. Molto diffusa nell’Italia dei Romani, necessitava di una particolare tecnica di innesto, descritta da molti storici antichi.

Nel “De rosis nascentibus”, attribuito da alcuni a Virgilio, il narratore passeggia all’alba in un hortus e vede roseti resi splendidi dall’abilità nella coltivazione dei Pestani. “Vidi Paestano gaudere rosaria cultu” scriveva il poeta latino. L’espressione “pestano cultu” rimanda a un’abilità particolare dei Pestani nella coltivazione delle rose, arte che ne fa una produzione unica e fiorente.

La peculiare abilità era da rimandarsi a complessi innesti su piante diverse, su radici estranee; se quei roseti si ammantavano di un prezioso color porpora che richiamava i tessuti regali, il merito va attribuito agli innesti effettuati su rovi ancorati a canne leggere, come attesta un affresco dalla Casa del bracciale d’oro di Pompei.

Teoria e tecnica.

Le tecniche applicate a Paestum dovevano essere note e utilizzate anche altrove se Plinio, riferendosi alla Campania, loda la coltivazione delle sue rose, descrivendole come abbondanti, profumate, bifere, centifolie. Pare che l’intera regione costituisse la principale produttrice di profumi dell’impero e presso la stessa Paestum, nell’angolo nord-ovest del foro del parco archeologico, è stato ritrovato un antico laboratorio destinato alla realizzazione di essenze profumate, di cui si conserva in ottimo stato anche il torchio servito alla lavorazione dell’olio d’oliva che è alla base della preparazione dei profumi antichi.

Venere.

Tale produzione richiedeva enormi quantità di petali del fiore dedicato a Venere e per questo i roseti hanno caratterizzato il panorama dell’antica Paestum. E la fama di queste rose bifere fu tale da sopravvivere anche alla fine della loro coltivazione e alla perdita dei roseti.

Nella città dei templi magno-greci – meta di un turismo culturale internazionale – , è appurato dagli studi moderni di archeologia botanica, avviati nel 2009, che sia fiorita per secoli questa varietà speciale, la rosa di Paestum, estinta in epoca recente e la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno e il Parco del Cilento e del Vallo di Diano hanno deciso di recuperare questo fiore cercando di ricrearlo da specie che dovevano essere simili – purtroppo non si è in possesso del DNA del fiore né di dati certi sulla specie originale – per reimpiantarlo negli scavi.

La rosa di Paestum.

In tal modo oggi la “rosa di Paestum” è tornata a rifiorire nell’area archeologica: grazie a un team di studiosi guidati da Luciano Mauro sono stati selezionato undici tipi di arbusti floreali, gli stessi che coloravano i campi dell’antica città sul Tirreno campano, e sono stati innestati nel perimetro degli scavi, disposti su tre file accanto al tempio di Nettuno e alla Basilica.

A Paestum, l’essenza di rosa si lavorava in speciali torchi. Dall’estratto di trecento boccioli, allungato con dell’olio d’oliva, si ricavavano otto once del celebre balsamo detto “rhodinon italikon”, utilizzato sia da donne che uomini e ricercatissimo anche a Pompei ed Ercolano. L’uso dei petali di rosa è un vezzo diffuso persino tra gli imperatori. Eliogabalo (fratello di Caracalla) ad esempio, diede un banchetto sotto un finto soffitto decorato con boccioli di rosa, riversati sopra i commensali durante la cena, come illustrato nel famoso quadro ottocentesco del pittore anglo-olandese Lawrence Alma-Tadema, “Le rose di Eliogabolo” che ha ispirato l’elaborazione grafica del catologo della mostra “Rosantico” che si è tenuta nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum, nel marzo 2013, contestualmente al ripristino del roseto nell’area dei templi.

La donna fiore.

Rimanendo in tema floreale e nell’ambito dell’antica area di culto pestana e dei santuari della foce del Sele, esiste un’altra peculiarità, legata all’artigianato locale della Paestum greca. Se visitiamo il Museo Archeologico, a piano terra, nella sezione “la città greco-lucana”, la vetrina n.3 espone dei manufatti che sicuramente catturano l’attenzione del visitatore e solleticano la curiosità, si tratta delle donne- fiore, dei reperti rinvenuti in un certo numero negli scavi archeologici della zona.

La donna-fiore era una delle offerte votive più diffusi nei santuari di Paestum nel IV sec. a.C.., ed è oggi da considerarsi un simbolo caratteristico della produzione ceramica delle officine pestane, a cui vengono ricondotte anche l’origine e l’elaborazione di questa tipologia di manufatto, che nei rituali sacri aveva funzione di incensiere. Realizzate in argilla, le donne-fiore sono formate dal busto o solo da una testa di donna che porta sulla sommità il calice di un fiore campanulato, il giglio selvatico che ancora oggi cresce tra le dune di sabbia del Cilento.

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