L’11 Novembre 1843 veniva pubblicata per la prima volta una delle favole più famose di tutti i tempi: Il brutto anatroccolo del danese Hans Christian Andersen. Almeno una volta i nostri genitori, o chi per loro, ci hanno parlato di questa storia.
Almeno una volta, crescendo, lo abbiamo fatto noi con i più piccoli.
Ma perché la favola del brutto anatroccolo non passa mai di moda? È dai banchi di scuola che ci portiamo dietro la distinzione tra fiaba e favola. In quest’ultima, come ben sappiamo, è prevista una morale e il linguaggio semplice, unito a vicende altrettanto semplici in cui sono per lo più protagonisti degli animali, vogliono insegnarci qualcosa, lasciarci un messaggio. Ecco perché alcune storie, pur all’apparenza banali che siano, fatichiamo a scordarle e ce le portiamo dietro anche da adulti alla stregua di un prezioso bagaglio culturale.
Le vicende del brutto anatroccolo sono note a tutti ma facciamo un ripasso veloce: mamma anatra è felice perché si stanno schiudendo le uova. Ma il suo sgomento è enorme quando da una delle uova esce un esserino grigio e brutto al posto di una bella anatrella. Da quel momento per il piccolo anatroccolo ha inizio una vera e propria odissea: è costretto a scappare da quella che considerava la sua famiglia a causa delle prese in giro sulla sua “bruttezza”. Quindi arriva prima in uno stagno di anatre selvatiche, poi in una fattoria, poi rischia di congelare a causa del gelo dell’inverno, poi viene scambiato da alcuni bambini per un giocattolo fino ad arrivare presso un laghetto dove incontra dei cigni maestosi. Ed è proprio lì che avviene la sua trasformazione e da brutto quale era diventa uno splendido cigno.
Diciamoci la verità: raccontata così sembra per davvero una storiella degna di essere narrata con l’unico intento di far prendere sonno ai bambini. In realtà la favola del brutto anatroccolo è divenuta immortale perché tutti noi, almeno una volta nella vita, siamo stati dei brutti anatroccoli. E non mi riferisco all’aspetto fisico, ma al viaggio che ogni essere umano compie per arrivare ad accettarsi e a essere accettato dagli altri.
Questo animaletto piccolo e sparuto si è elevato a esempio di tutti noi che fin dall’adolescenza, a volte anche dall’infanzia, ci sentiamo nati nel posto sbagliato e tra le persone che crediamo sbagliate. E allo stesso modo, così come il protagonista della favola, ne passiamo davvero tante prima di arrivare a stimarci e a renderci conto dei valori e dei doni che possediamo e che possiamo donare agli altri. Diventiamo belli quando riteniamo di essere felici perché abbiamo raggiunto sicurezza e autostima, quando siamo pronti a gridare al mondo “ho trovato me stesso”.
Non si raggiunge la consapevolezza di sé attraversando le vie più brevi. Quella è piuttosto presunzione, e poco c’entra con la crescita interiore del brutto anatroccolo. Il tragitto che molto spesso percorriamo nell’arco della nostra esistenza è irto di ostacoli e ci conduce in posti inospitali, quasi pericolosi, come la fattoria dalla quale il brutto anatroccolo viene scacciato da un gatto e una gallina. Ogni giorno incontriamo persone che rischiano di minare le nostre certezze, fondamenti vitali per una crescita responsabile e sana di noi stessi. Ce ne sono alcune poi che ci fanno talmente male da distruggerci. Di bulli che utilizzano parole e gesti volti a predominare, purtroppo, ne è pieno il mondo e lasciano dietro di sé delle vittime a volte inascoltate.
Ma il brutto anatroccolo non si è mai arreso. È andato sempre avanti. Ha sofferto, sì. È addirittura quasi morto. Ma alla fine gli accade una cosa meravigliosa: si trasforma e diventa ciò per cui era destinato dalla nascita.
Ecco dunque perché non dobbiamo mai stancarci di raccontare e raccontarci questa fiaba così ricca di significato che non smette di insegnare, generazione dopo generazione, una lezione fondamentale: si cade, si scappa, si dubita ma poi ci si rialza sempre per accettare quella trasformazione che, sopita e tacita, è annidata in ciascuno di noi in attesa di sbocciare.
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