“Non è facile raccontare questa storia a chi non conosce la valle del Basento, il cielo celeste come i colori a matita dei bambini, i pendii che il grano rende verdi a primavera e gialli d’estate, i fuochi nelle stoppie, i tralicci per l’estrazione del petrolio, i paesi agonizzanti sulle colline, il volo del nibbio”. (Mille anni che sto qui, capitolo ventitreesimo)

Mariolina Venezia di certo la conosce bene. Nata a Matera nel 1961, oggi vive a Roma dove lavora per il teatro, il cinema e la televisione. Ha scritto poesie e romanzi, tra i quali “Mille anni che sto qui” dal quale è tratta questa citazione e che le è valso il Premio Campiello 2007.

Ho letto “Mille anni che sto qui” la scorsa estate, durante una vacanza a fine giugno. Appassionata di saghe familiari, mi sono lasciata tentare da queste pagine che raccontano cinque generazioni della famiglia Falcone, dall’unità d’Italia alla caduta del muro di Berlino. Tante espressioni dialettali in una striscia di terra povera e polverosa le cui estremità sono Grottole e Matera, con rapide incursioni a Nuova York, Montescaglioso, Monopoli, Reggio Emilia, Parigi. A disegnarle, sembrerebbero scie di schegge impazzite, allontanante a caso e poi ritornate indietro alla loro primordiale striscia di terra, come attratte da un punto magnetico.

Oggi, a Matera, tra i Sassi, di sera si può uscire da un locale dai soffitti altissimi dove si è gustato cibo genuino e provare immediatamente la sensazione di far parte di un presepe dalle mille lucine per poi andare a dormire in un ambiente spoglio eppure intriso di storia e bellezza, una camera di charme che spesso è oggetto di turismo internazionale di lusso.

Eppure, fino a non molti decenni fa, i Sassi erano soltanto sinonimo di miseria e povertà:

“…i Sassi di Matera erano la grande capitale troglodita del mondo contadino. Nelle sue case scavate nel calcare si erano avvicendati popoli italioti e derelitti di tutte le razze: profughi albanesi, stiliti greci, eretici, comunità giudaiche in fuga, che una volta annidati in quello che sarebbe stato definito un dente cariato, avevano prontamente perso il ricordo delle loro terre e anche dei motivi che li avevano spinti ad abbandonarle, amalgamati da un unico denominatore comune: la fame. Matera gestiva la fame proveniente dalle campagne circostanti, era il cuore di un circolo vizioso di mezzadri spossati che facevano avanti e indietro dalle campagne ad alimentare un’economia entropica. Tutt’attorno i paesi … se ne stavano semplicemente appollaiati sulle colline franose, privi di storia, a rodersi di fame e basta”.

Molti si vergognavano di dire che abitavano proprio in quella parte della città, come accadde a Rocco, uno dei protagonisti del romanzo:

“Adesso, né lui né Mimmo ci andavano mai (a i Sassi), e distoglievano lo sguardo quando ci passavano vicino, come se fossero un focolaio di infezione e potessero rimanerne contagiati. Avevano imparato a mentire, quando qualcuno chiedeva dove abitavano, perché i Sassi erano una vergogna dalla quale bisognava prendere le distanze”.

Tre anni fa, a fine Settembre del 2018, andai in una zona d’Italia a me ancora ignota: la valle d’Itria, in Puglia, con una tappa giornaliera in Basilicata, a Matera.

Trovammo un trullo delizioso e appena ristrutturato che divenne il nostro punto d’appoggio a pochi chilometri da Cisternino e dalle grotte di Castellana. Di quel viaggio ricordo un forte vento, implacabile e a volte freddo e fastidioso, che non riuscì comunque mai a scalfire lo stupore per le meraviglie che si aprivano davanti ai nostri occhi.

La prima sera, dopo cena, nonostante le centinaia di chilometri percorsi e una veloce sosta d’obbligo a Castel del Monte (sì, quello delle monete da un centesimo, con tanto di sorpresa di mio figlio alla spiegazione lampante sotto gli occhi, mano al portamonete – allora era quasi seienne), non resistemmo alla tentazione di fare una breve visita a Polignano a Mare, dove trovammo ad accoglierci – letteralmente a braccia aperte – a pochi metri dal parcheggio, la statua di Domenico Modugno (qui nato il 9 Gennaio 1928). Spalle rivolte al mare, sembrava quasi voler spiccare quel suo famoso volo che solo il canto può e che ci ha resi famosi nel mondo (chi resiste al suo Volare, oh oh, cantare, oh oh oh, ovviamente nel blu dipinto di blu?!).

Lo scorcio di mare di Polignano, altrettanto famoso nel mondo, si trova a pochi passi da lì, e la sua bellezza ti lascia senza fiato sia di notte che di giorno, con quelle scogliere a picco, la spiaggia piccolina che sembra un quadro incorniciato e il suono inconfondibile e continuo delle onde che ti ricordano di essere in un angolo reale di mondo anziché nella sala di un museo!

Ma la piacevolissima e inaspettata scoperta di tutto il viaggio si è palesata il giorno successivo, quando decidemmo quasi per caso di andare a Monopoli. Menzione d’onore al Premiato Caffè Venezia, che con la sua lauta colazione ci ha permesso di costeggiare poi a piedi tutto il Porto Vecchio raggiungendo il Castello Carlo V prima e il Bastione Santa Maria dopo, fino ad arrivare alla splendida Cattedrale barocca. Le bellezze storiche di Monopoli erano nascoste dietro angoli di strette vie in pietra, vicinissime al mare e decorate da murales di grandi foto di inizio Novecento, una sorta di galleria artistica a cielo aperto dove personaggi e abitanti in bianco e nero ti sorridevano facendoti una simpatica compagnia.

Nel romanzo “Mille anni che sto qui” si parla di Monopoli in riferimento all’istituto delle suore del Sacro Cuore, dove Concetta mandò a studiare la figlia Alba ad appena dieci anni d’età. Più o meno alla stessa età la figlia di Alba, Gioia, ultima protagonista del romanzo e discendente della famiglia, andrà a vivere a Monopoli con i genitori e lì scoprirà che

“..la terra promessa esisteva, e non si trovava, com’era scritto nella Bibbia, alle fonti del Tigri e dell’Eufrate, ma a meno di cento chilometri dal luogo in cui era nata, sulla costa pugliese. … A Monopoli gli alberi di olivo non sembravano braccia scheletriche contorte nella sofferenza, il sole non bruciava, la campagna non aveva sete. C’era il mare, gli scogli, le spiagge. Le donne avevano vestiti colorati. C’era il treno”.

Siamo, all’incirca, nel 1970.

Avendo con noi due bimbi piccoli abbiamo studiato a tavolino delle tappe d’obbligo a loro misura, per non annoiarli troppo in cinque giorni già resi stancanti da tanti chilometri in auto (1.770 in tutto!).  Meritano menzione per le famiglie interessate ad un viaggio del genere e perché, almeno nei miei figli, hanno destato divertimento e curiosità: si tratta del planetario e delle grotte di Castellana e di Fasanolandia con il suo Safari Park.

Di Alberobello e Ostuni ci sarebbe da parlare in articoli dedicati, basterà citare e confermare i famosi trulli (bellissimi e ben conservati) ed il bianco ovunque che spicca sul cielo e sul mare (Ostuni è detta a ragione “la città bianca”), a cui aggiungerei io: ottima cucina con materie prime di altissima qualità, prime fra tutte il pane e l’olio – le basi, proprio; grande dedizione ai piccoli particolari, dalle piante grasse agli arredi esterni e interni; i fiori e i colori; l’artigianato locale curato e prezioso; lo stile barocco di alcune chiese; l’arte e la storia ovunque lo sguardo si posi. Paesaggi, panorami ed edifici che meritano una visita almeno una volta nella vita.

Cambiando regione, ma senza fare troppi chilometri, si arriva facilmente, appunto, a Matera, Patrimonio Mondiale UNESCO dal 1993 e capitale della cultura nel 2019.

Vediamo come apparve alla prima ava di Gioia, di cui si parla in “Mille anni che sto qui” fin dalle prime pagine, almeno un secolo prima:

“Concetta andò a Matera per comprare la stoffa del vestito, allontanandosi per la prima e ultima volta in vita sua dal paese dove era nata. Le sembrò di arrivare a Roma, o a Nuova York, di cui aveva sentito parlare qualche volta, e fu presa da una nostalgia tenace, un senso di solitudine e di vertigine che si placò soltanto più tardi quando dalla Via Nuova, tornando, vide spuntare le macerie della chiesa caduta di Grottole. Il cuore le batteva forte mentre chiedeva indicazioni. Non aveva mai visto tante facce estranee, e non sapeva come comportarsi. Parlò poi per anni di questo suo viaggio. Dei Sassi, che vide dall’alto, con le persone che sembravano tante formichine. Di un funerale di signori, con la carrozza tirata da sei cavalli neri e la musica. Della vetrina di un negozio dove vide le prime fotografie della sua vita, e scappò come se avessero potuto inseguirla”.

Nel secondo dopoguerra Matera registrava una mortalità infantile quattro volte superiore alla media nazionale. Non molti anni prima, Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato a Eboli” narrava espressamente le precarie condizioni igieniche in cui versavano i Sassi, dove vivevano circa quindicimila abitanti senza fognature, il che aumentava enormemente il rischio di epidemie. Le sue parole avevano di certo scosso l’opinione pubblica su questa zona poverissima d’Italia e Alcide De Gaspari, dopo una sua personale visita in Basilicata, decise di creare una legge ad hoc, la cosiddetta “Legge Colombo”, per il risanamento dei Sassi ed un piano regolatore per la città di Matera con nuovi quartieri dedicati ai suoi abitanti.

Verso la fine del romanzo, quando lo sfollamento degli anni Cinquanta era già avvenuto su iniziativa dell’allora presidente del consiglio De Gasperi, Gioia torna nella zona dei Sassi e la vede con occhi ben diversi rispetto alla sua ava Concetta:

“Portò Alex in una delle tante case abbandonate, nel Sasso Caveoso. Le era particolarmente cara. Aveva spesso sognato di abitarci, un giorno. Era tutto un intrico di stanze e stanzette, di antichi saloni e stalle, di grotte e cantine. Da una finestra si vedevano le rocce a strapiombo sulla Gravina che diventavano rosa con la luce del tramonto. Nella maggior parte dei punti il pavimento non c’era più. Per terra crescevano le ortiche, e ciuffi di parietaria spuntavano sui muri. Le volte erano alte. In un angolo, che forse era stato una cappella, c’erano i resti di un affresco, una madonna col volto di ragazza. Una mangiatoia avrebbe potuto servire da letto”.

A Matera abbiamo passeggiato tanto, immaginando facilmente di trovarci in una zona della Terra Santa: non a caso Mel Gibson ambientò qui gli esterni del suo famoso film La Passione di Cristo. Prima di lui, Pasolini vi aveva girato “Il Vangelo secondo Matteo” e Rosi proprio “Cristo si è fermato a Eboli”.

Noi abbiamo visitato, oltre alle chiese principali, la storica casa grotta di vico Solitario, antica abitazione tipicamente arredata e, lì vicino, la chiesa rupestre di san Pietro in Monterrone, con affreschi ancora visibili.

La sensazione che si prova è di nostalgia, di bellezza, di natura, di storia. Un qualcosa in cui tu non solo appari da lontano proprio come una formichina tra le gallerie del suo formicaio, ma ti senti proprio piccolo e vulnerabile come quella formichina. La vastità del panorama quasi incontaminato che ti circonda ti fa immaginare non solo di essere lontano dai luoghi della modernità, ma anche dai nostri tempi.

Un sortilegio che, rivendendo le foto del viaggio ed una in particolare in cui il bel profilo di mia madre si staglia sullo sfondo dei Sassi, mi ha ispirato una poesia che in questi giorni di Maggio in cui si celebra la festa della mamma mi piacerebbe riportare:

“La bellezza dei Sassi

è come la bellezza e l’Amore

 per la Madre:

primitiva, senza tempo, incrollabile,

stabile, eterna.

Un rifugio, una roccia,

un paesaggio da ammirare senza fiato,

in religioso silenzio.

L’origine:

dal centro della Terra

come dal ventre della Madre”.

Curioso a questo punto riflettere su una delle tante ipotesi etimologiche che gravitano su Matera: “mater” , a ricordare una madre e il suo ventre protettivo, per la sua conformazione naturale che ospita la vita umana e animale dalla preistoria, e Madre Terra, per la sua bellezza unica al mondo e quasi incorrotta, dagli stessi tempi immemori.