Il piccolo grande incanto che opera Maria Messina è presto tracciato, con pochi, semplici e sapienti tocchi: la femminilità impregna questa storia a partire dal getto gentile di una penna leggera e immalinconita, che induce all’identificazione solleticando corde remote dell’animo.

Se questo è il tratto distintivo della scrittrice, che proprio qui palesa il suo debito con Verga, non può non colpire la rivendicazione d’appartenenza alla terra siciliana fatta rivivere attraverso ricordi d’infanzia.

Un racconto che, introdotto e racchiuso da un titolo in cui nonostante due termini di accezione positiva, l’attenzione è polarizzata sulla preposizione privativa centrale del “senza”, si avvia lento e inesorabile verso il compimento di un destino già segnato. L’idea evocata dal titolo non è solo quella di un grigiore logico e consequenziale -suggerito dalla circonlocuzione di una “primavera senza sole”-, ma rimanda all’innaturale scenario della mancanza di un elemento vitale, indispensabile alla fioritura, se non addirittura alla sopravvivenza delle speranze giovanili.

Già subito, con indefinita tenerezza, ci vengono dischiuse le imposte sulla semplice vita condotta da Orsola, che studia per prendere “la patente” per diventare maestra e allo stesso tempo dà lezioni ai cugini ricchi per assicurare favori alla propria famiglia indigente. È forse questo il germe della sua condanna alla perdizione in quanto viene additata come una ragazza troppo libera, mal vista, perché lo studio distingue e rende emancipati, liberi, troppo liberi di uscire, di frequentare maschi e femmine, di sapere, di conoscere.

Come schermati da una persiana, impariamo a coglierne impercettibili moti dell’animo tra un sussulto e una parola taciuta e attraverso i suoi occhi cerchiamo, nelle case che visita e che osserva, non la ricchezza, ma l’affetto che, più del cibo, nella sua, le viene negato.

Assistiamo quindi a uno strano parallelismo stabilito tra il cibo e l’affetto: il primo simboleggia (come per la roba di Verga) e stabilisce anche una certa differenziazione sociale, e di fatto su di esso si insiste per sottolineare la quantità e l’abbondanza in quanto espressione di benessere mancato nella casa di Orsola, laddove si registra la carenza di un altro elemento indispensabile in quella famiglia: l’affetto che faccia sentire amati e rinsaldi i legami familiari.

In questo libro si sente palpitare la vita dei vicoli siciliani colta e rappresentata attraverso vivide immagini che stimolano la percezione sensoriale; le scene di vita quotidiana nel “baglio” – gli scambi dal balcone con la canna, la nettatura del frumento, il pesce nel canestro, la ricamatrice sull’uscio – che proposte nella loro rassicurante ripetitività – come ciclico è l’arco di tempo che copre la storia – contengono già la loro vocazione all’immobilità che può diventare claustrofobica o reclusione (non a caso la protagonista del racconto Le pause della vita, Paola, sceglie la vita monastica come atto estremo di rinuncia alla vita).

Il grande pregio, fatto da una sottile arte di contrappunti, è quello di esprimere stati d’animo e indefinibili sensazioni accanto a descrizioni realistiche e immagini plastiche che assumono una loro corporeità alla vista e all’olfatto. Oltre a Orsola, è nella mimica facciale e gestuale e nella parlata che i personaggi manifestano i loro pensieri e modi di essere. Quelle frasi spezzate, lasciate a metà, nei dialoghi già mozzi e infarciti di espressioni gergali, li caratterizzano molto più delle loro descrizioni fisiche, che diventano solo accidentali.

All’uso della similitudine va riconosciuto il potere evocativo che rende tangibili emozioni e pensieri inconfessati sottraendoli all’indefinitezza di uno stato confusionale, inconsapevole, affermati così nella loro consistenza reale.

Donna Serafina respirava più liberamente, poi che la confessione scacciava i neri dubbi che le avevano offuscato la vista, così come il sole distrugge la nebbia che copre le montagne (p. 38)

 

E quell’amore frenato, vigilato dalla madre accorta, quell’amore che si manifestava negli sguardi furtivi, nel tono della voce, come un aroma che si sprigiona da una fiala chiusa… (p. 54).

 

In questo ristretto microcosmo matriarcale in cui l’unico affare sociale in cui confluiscono sforzi e sacrifici di macchinazioni e strategie è il matrimonio, l’unico bandito è l’amore che pure palpita dagli ingenui cuori giovanili ma è già destinato a soccombere:

Pensare all’amore quando in casa, spesso, non si prepara da mangiare, e quando non si ha un abito adattato alla stagione? Bella cosa sposarsi, quando si è poveri, per poi piange re e abbrutirsi tutta la vita dietro la miseria come sua madre! (p. 50).

Una concezione questa che richiama quella degli Amori senza amore del primo Pirandello e quel mondo di sentimenti negati da considerazioni materialistiche, opportunità mancate e sprecate.

Due volte la malattia coglie Orsola allo stremo delle forze; due volte la catarsi non può compiersi perché lo sfinimento è interiore, troppo profondo.

L’impronta verghiana è più evidente nel senso di tragicità e di abbandono: gli eventi apicali della storia vengono glissati, fatti immaginare con la drammaticità delle loro conseguenze, e anche il finale è lasciato sospeso, come se richiedesse un enorme sforzo da parte della stessa autrice.

 

“La vita è bella! Essere infelice, essere misera, essere l’ultima delle creature, ma vivere, ma potere ascoltare, poter vedere! È bello, vivere senza altro scopo che lo scopo di vivere, come le rose che si schiudono nelle albe estive, come le rondini che passano nel cielo del “baglio” e forse gridano di felicità… (p. 64). 

 

Come non rimanere commossi dinanzi a una così accorata dichiarazione d’amore alla vita? In queste parole struggenti può sentirsi la voce vibrante della giovane Maria Messina che nel 1920 cominciava a pubblicare i suoi romanzi e ad affacciarsi alla speranza.

 

Primavera senza sole è il terzo titolo pubblicato da Edizioni Croce nell’ambito del progetto curato da Salvatore Asaro che, di questo volume in particolare, cura l’introduzione con una nota preziosissima e particolareggiata, di sostegno alla comprensione e alla decodificazione del testo. La copertina del romanzo è un capolavoro di estetica e semiotica: mentre veicola con immediatezza ed efficace impatto l’immagine di una giovane ragazza tutta candore e pensosità, predispone in un ideale invito grafico e cromatico alla lettura con le giuste aspettative.

I semi gettati non possono non germogliare in uno stimolante appetito di nuove conoscenze e approfondimenti dell’opera di Maria Messina, scrittrice delicata e concreta, semplice e complessa.