Giorgio Ponte comunica il sentimento di speranza anche e soprattutto attraverso le narrazioni dei suoi romanzi. L’intervista.
Giorgio Ponte e la speranza…
Giorgio Ponte comunica il sentimento di speranza anche e soprattutto attraverso i suoi romanzi. Infatti, l’autore afferma parlando di sé stesso: «faccio il precario per Provvidenza e lo scrittore per Vocazione». Nella biografia personale presente sul blog di Giorgio Ponte è possibile leggere anche: «Oggi mi rendo conto che in fondo tutto quello che ho fatto l’ho fatto seguendo questo intento: raccontare la Speranza, in tutti i modi in cui mi era possibile».
I suoi romanzi
La speranza emerge dalle narrazioni di Giorgio Ponte a cominciare da “Io sto con Marta”, il suo libro esordio pubblicato dalla casa editrice Mondadori . “Io sto con Marta” ha da subito conquistato l’attenzione del grande pubblico e riscosso un ottimo successo di vendite. Eppure, quest’ultimo è stato solo il primo di una lunga serie di piccoli e grandi trionfi da parte di questo autore dal percorso personale poco convenzionale e dallo stile immediatamente riconoscibile.
Lo stile di Giorgio
In effetti lo stile di Giorgio Ponte è estremamente caustico, autoironico e per nulla retorico ed è questo quello che mi ha colpito personalmente e che mi ha spinto a desiderare di intervistarlo. Tra le altre sue creature si ricordano anche “Sotto il Cielo della Palestina” e “Quattro anziani, due cani e una prostituta”. L’intervista.
“Io sto con Marta” e l’autoironia
“Io sto con Marta” è una commedia inusuale sul mondo del lavoro. Tu un po’ come Marta hai saputo uscire dal tuo presunto “vittimismo” e imparare a sapere utilizzare tante armi, tra le quali quella della ironia, della relativizzazione. Credi che in questa società manchi un po’ questa capacità o secondo te siamo a posto così?
«L‘autoironia è qualcosa che per me in primis è stata necessaria in tutto il mio percorso. Per questo è un tratto caratteristico che ho dato tanto a “Io sto con Marta” quanto ai protagonisti del mio ultimo romanzo “Quattro anziani, due cani e una prostituta”.
Siamo tutti mix unico di doni straordinari e limiti
È importante saper ridere delle proprie miserie, senza ridicolizzarsi o sminuirsi, ma guardandosi in verità, pregi e difetti. Perché questo siamo: un mix unico di doni straordinari e limiti, altrettanto straordinari, che si alternano in noi rendendoci uno spettacolo di contraddizioni, che in qualche modo riesce a portare bellezza in questo mondo. Marta, come i miei quattro signori anziani, questo lo sanno, ed è ciò che li rende forti, nonostante le insicurezze.
Nella nostra società manca il saper ridere di sé stessi
Non saper ridere di sé stessi infatti è segno di grande fragilità, e presuppone un’immagine idealizzata di noi stessi, rispetto alla quale ci sentiremo sempre mancanti. Purtroppo, il mondo di oggi non educa a questa capacità: non c’è posto per l’autoironia in una società che ha fatto della “dittatura delle sensibilità” la cifra di ogni rapporto.
Il supporto della fede
Quando la sensibilità soggettiva diventa la cifra per interpretare la realtà oggettiva, è il momento in cui il mondo si popola di nemici immaginari, e noi smettiamo di vivere sereni. Saper ridere di sé è ciò che toglie le armi anche chi vorrebbe davvero farti male, perché gli mostra che le sue parole non hanno potere su di te. In questo la fede mi ha molto aiutato: non hai bisogno di difenderti da chi ride dei tuoi limiti, quando la tua dignità è data da un Dio che ti ama già, oggi, così come sei».
La funzione salvifica della sofferenza
La frase leitmotiv di “Sotto il Cielo della Palestina” è «Nessun uomo è fatto per soffrire». Quanto ti ha permesso di crescere e di comprendere questo il rapporto con Dio? Ora sei appagato?
«L’esperienza del dolore è qualcosa che accomuna ogni uomo o donna sulla terra, in ogni luogo e tempo. Eppure, qualcosa dentro di noi ci dice che l’uomo non è fatto per il dolore, ma per una gioia profonda di cui abbiamo costantemente fame. È la nostalgia di quella gioia che ci guida, giorno dopo giorno, cercando nuovi modi per renderla presente in questa vita. Nonostante il peso che ciascuno di noi si porta dentro. Per fare questo però, bisogna smettere di scappare di fronte a quel peso e affrontare ciò che ci dice di noi.
Le tre storie di “Sotto il Cielo della Palestina”, “Giairo”, “Levi”, “Yokabe”
Le tre storie di “Sotto il Cielo della Palestina”, “Giairo”, “Levi”, “Yokabe”, mostrano questo: solo stando di fronte al proprio dolore in Verità, smettendo di fuggire e aprendosi a chi si fa compagno in questo cammino, si può trovare la luce per ripartire, nascosta al fondo di ogni dolore. Cercare quella luce è ciò che permette di dire davvero che “nessun uomo è fatto per soffrire”. Si tratta di una vera e propria resurrezione che chiunque può sperimentare a prescindere dalla fede: la sofferenza si può trasformare in vita, in modi misteriosi. Modi che puoi trovare solo se confidi nel fatto che esistano.
La funzione del dolore
Quando il dolore si supera, esso ti dà la possibilità di farti più vicino a chi porta pesi simili ai tuoi, rendendo anche la sua sofferenza meno grave. Io questo l’ho sperimentato nella mia vita: tutto ciò che non volevo guardare, è ciò che poi mi ha dato la possibilità di aiutare tante vite e condividere cammino con tante di più. Quella sofferenza, in un modo misterioso, è diventata tramite di grazia che mi ha permesso di guardare a ciò che non volevo, ma di cui avevo bisogno per essere libero; per essere nella gioia. È un cammino che non finisce mai, e in questo senso non potrò dirmi mai definitivamente “appagato”. Eppure non per questo posso dire di non essere felice. Perché la felicità non è un sentimento, è una scelta.»
Il rapporto personale con tutte le mie “creature”
Si dice che ogni libro di uno scrittore rappresenti per lui una sorta di suo figlio/ creatura. Quale è, se esiste, tra questi ultimi la tua creatura prediletta e cosa costituisce ciascuno di essi per te?
«Sì, ogni libro è una creatura ed è impossibile trovare un libro che non porti qualche pezzo di noi, a volte nascosto persino a noi stessi. Già i due generi contrapposti di cui scrivo sono segno delle diverse “vite” e sensibilità che si agitano in me alternandosi: leggerezza e serietà, lacrime e risate, dramma e comicità. Eppure, tutte sono storie di speranza. Tuttavia, se dovessi scegliere l’opera più significativa per ciascuna delle mie voci direi che i libri cui sono più legato sono “Io sto con Marta!” e “Yokabe”.
L’aiuto di “Marta”
“Marta” ha raccolto tanto di ciò che è successo a me nel mio primo anno di vita a Milano. All’epoca, infatti, da Palermo ho deciso di lasciare tutto per tentare la carriera di scrittore e per mantenermi ho dovuto fare i conti con la realtà di un mondo del lavoro difficile e non più fatto per le persone. In lei ho riversato tutto il mio desiderio di riscatto e la mia convinzione che ancora si possano cambiare le regole di questo gioco al massacro che è diventato il mondo del lavoro. trovando insieme strade nuove.
“Marta” e la mia carriera di scrittore
È stata “Marta” a dare il via alla mia carriera di scrittore, perché il suo grido di speranza è stato raccolto dai tanti che si sono ritrovati nelle sue vicende (come nelle mie) e di questo le sarò per sempre grato. Ancora adesso dopo tanti anni, quando leggo il finale di quella storia mi emoziono. Tuttavia, “Marta” non sarebbe mai esistita senza Yokabe, e i tre romanzi di “Sotto il Cielo della Palestina”. E per pubblicare quelli che sono salito a Milano.
“Yokabe” ed il valore della dignità
E a “Yokabe” in particolare devo il mio ritorno alla scrittura, dopo diversi anni in cui avevo abbandonato questa strada. In quel periodo mi ero ritrovato in una vita che non riconoscevo più mia e ho abbandonato tutto ciò che stavo facendo. Non sapevo cosa avrei fatto, ma non occorre sapere dove andare, per abbandonare una strada che ti sta uccidendo.
Il mio rapporto con la scrittura
La scelta di rinunciare a una vita che non era la mia è ciò che ha fatto riemergere l’unica passione che davvero mi apparteneva: la scrittura. Da che mi sentivo morto, ho ripreso a respirare. Ricordo quei giorni come un periodo di grande gioia e rinascita, dove desideravo raccontare a tutti quanto la vita potesse essere bella, nonostante le difficoltà.
Il momento del racconto della mia storia
Allora non potevo raccontare la mia storia, poiché c’erano molti aspetti personali che non avevo ancora condiviso con la mia famiglia. Perciò, scrissi “Yokabe”: per consegnare a lei tutto il mio vissuto. “Yokabe” conteneva la sensazione di perdersi un giorno alla volta, schiacciati dalle proprie ferite e da un’immagine di noi stessi che qualcun altro ci ha imposto. Per poi scoprire chi siamo realmente di fronte allo sguardo di chi, guardandoci in Verità, ci restituisca la nostra identità. “Yokabe” incarna la speranza di riscoprire la nostra dignità al di là di quanti errori possiamo aver commesso. Senza di lei, nulla sarebbe stato possibile».
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