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Cosa sappiamo dell’Afghanistan in mani ai talebani? Ogni tanto ci giungono notizie frammentate e tristi. Poco prima di Natale, ad esempio, è stato nuovamente negato il diritto allo studio universitario per tutte le donne e, notizia di pochissimi giorni fa, ora anche l’accesso all’istruzione secondaria sembrerebbe negata al genere femminile.

Proprio in questi ultimi anni sono rientrati in classifica, tra i libri tascabili più venduti anche in Italia, quelli di Khaled Hosseini. L’autore nel 2001 – ma prima di quel Settembre – ha iniziato a scrivere il suo primo bestseller, dato alle stampe nel 2003, Il cacciatore di aquiloni.

Per sua stessa ammissione, un romanzo che non avrebbe mai pensato potesse interessare al mondo, soprattutto dopo quell’11 settembre. E invece il mondo aveva fame di “vedere” e di cercare di capire la quotidianità e l’umanità in quell’angolo di mondo tanto dilaniato, conteso, devastato. Un mondo profondamente diverso, a metà tra oriente e occidente, la base dei talebani, la culla del loro orrore. Hosseini lo aveva vissuto, ne era stato testimone.

In particolare, sono stati proprio Il cacciatore di aquilone e Mille splendidi soli a tornare in auge.

Personalmente lessi tutta la trilogia, più o meno nel periodo in cui uscì in Italia (dove vendette oltre quattro milioni di copie!) e dei tre romanzi più di tutti mi colpì Mille splendidi soli, che racconta la storia di due donne, Mariam e Laila, ed è dedicata a tutte le donne dell’Afghanistan.

Se non avessi ripreso in mano tutti e tre i libri in questi giorni (sono stati scritti da Hosseini nell’arco temporale di dodici anni), forse mai mi sarei accorta che sono tutti dedicati innanzitutto ai figli dell’autore, Haris e Farah, da lui sempre definiti la “nur” (luce) dei suoi occhi. E, mentre il primo è dedicato in particolare ai bambini dell’Afghanistan e racconta di un’amicizia, il secondo è dedicato appunto alle donne dell’Afghanistan, mentre il terzo è dedicato al padre “che ne sarebbe stato fiero”.

CHI E’ KHALED HOSSEINI

Hosseini è nato nel 1965 a Kabul, figlio di un diplomatico e di una insegnante. Ultimo di cinque fratelli, nel 1980 dopo l’arrivo dei russi ottiene, con la sua famiglia, asilo politico negli Stati Uniti. Si trasferisce in California e lì ancora vive con la moglie, avvocato, Roya. Lei è sempre l’ultima nei ringraziamenti, Hosseini ammette che senza di lei mai nessuno dei suoi libri sarebbe esistito e le rinnova il suo amore ogni volta. Tutti e tre i libri si concludono con queste ultime due parole a lei dedicate, nell’ultimissima pagina: “Ti amo”.

Laureato in medicina all’Università di san Diego, dopo l’inaspettato e immenso successo letterario (la Dreamworks di Steven Spielberg ha acquisito i diritti cinematografici di entrambi i primi libri), era tornato in Afghanistan come inviato per l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Aveva anche dato vita alla Khaled Hosseini Foundation, un ente non profit che aiuta, ancor di più oggi, la popolazione afgana.

I libri di Hosseini sono romanzi struggenti, scritti con maestria e competenza, che raccontano (anche) di una Afghanistan e soprattutto di una Kabul moderna, quella che sui social stentiamo a credere possibile, nelle sue foto in bianco e nero degli anni Sessanta e Settanta. In quegli scatti le donne potevano ridere. Potevano andare a scuola – sia come insegnanti che come studentesse. I loro capelli non erano coperti da veli o burqa, potevano vestirsi come preferivano. Potevano ovviamente lavorare, ma anche leggere, cantare, ascoltare musica. Potevano truccarsi, mettersi lo smalto, indossare gioielli, uscire senza essere accompagnate da un uomo (la legge della Sharia vieterà tutto questo).

Per Pink Magazine ho pensato proprio, non a caso, di soffermarmi sul secondo romanzo di Hosseini, invitando i lettori e le lettrici a leggerlo, qualora se lo fossero perso nel 2007.

Il titolo del libro, Mille splendidi soli, prende spunto da un verso di una poesia di Saib-e-Tabrizi, risalente al XVII secolo, dedicata a Kabul:

“Ah! Quanto è bella Kabul circondata dalle sue aride montagne

Le sue raffiche di terra in polvere mi pungono leggermente gli occhi

Ma io la amo, perché la conoscenza e l’amore sono nate da questa stessa polvere.

La mia poesia è ispirata ai suoi tulipani abbaglianti

E alla bellezza dei suoi alberi arrossisco

Possa Allah proteggere tale bellezza dalla malvagità dell’uomo!

Ogni strada di Kabul è magnifica alla vista

Attraverso i bazar, passano le carovane d’Egitto

Non si possono contare le lune che brillano sui suoi tetti,

né i mille splendidi soli che si nascondono dietro le sua mura”.

Sembra di immergersi nella bellezza di questa grande città della Storia del mondo, nel suo splendore che tuttavia non le ha risparmiato, purtroppo, di divenire teatro della malvagità dell’uomo, fino ai nostri giorni.

HERAT

Il libro è diviso in quattro parti, per cinquantuno capitoli. Nelle primissime pagine facciamo la conoscenza della piccola Mariam, che vive vicino ad Herat e che scopre, a soli cinque anni, di essere una harami, una “nata fuori dal matrimonio”.

“Herat un tempo era stata la culla della cultura persiana, la patria di scrittori, di pittori e di sufi (mistici dell’Islam). ‘In questa città non si poteva stendere una gamba senza dare un calcio a un poeta’ le aveva detto ridendo (il padre). Le aveva raccontato della regina Gauhar Shad, che nel XV secolo aveva eretto i famosi minareti, come un’ode alla sua benamata Herat. Le aveva descritto i campi verdi di grano che circondavano la città, i frutteti, le vigne cariche di floridi grappoli, gli affollati bazar dai soffitti a volta”.

Quando la veniva a trovare il Mullah Faizullah, l’anziano insegnante di Corano del villaggio di Mariam, al quale lei era molto affezionata,

“si sedevano all’aperto, mangiavano pinoli e sorseggiavano tè verde osservando i bulbul che volavano da un albero all’altro. A volte facevano una passeggiata tra gli arbusti di sambuco, camminando su un tappeto di foglie color bronzo lungo il torrente in direzione delle montagne”.

“C’era un punto panoramico, al limite della radura, che Mariam amava in modo particolare. Si sedette sull’erba asciutta e tiepida. Da lì poteva ammirare Herat, che si stendeva ai suoi piedi come il plastico di un gioco infantile: il Giardino delle Donne a nord della città, il bazar Char-suq e le rovine dell’antica fortezza di Alessandro Magno a sud. Riusciva a distinguere in lontananza i minareti, come dita polverose di giganti, e le strade che immaginava pullulanti di persone, di carri, di muli. Osservava le rondini scendere in picchiata o volare in tondo sopra la sua testa. Invidiava quegli uccelli. Loro erano stati a Herat”.

Dopo una serie di tristi vicissitudini, Mariam è costretta ad andare a Kabul, a soli quindici anni.

KABUL

“Kabul era infinitamente più animata di quel poco che aveva visto a Herat. C’erano meno alberi e meno gari trainati da cavalli, ma più automobili, edifici più alti, più semafori e strade asfaltate… Ma erano le donne ad attirare maggiormente l’attenzione di Mariam. Le donne di questo distretto di Kabul appartenevano a una specie diversa da quelle dei quartieri poveri … queste donne erano… “moderne”. Sì, donne afghane moderne, maritate a uomini afghani moderni che non facevano caso se le loro mogli camminavano in mezzo a estranei con il viso truccato e senza il velo sulla testa.

Mariam le guardava muoversi disinvolte per la strada, a volte accompagnate da un uomo, a volte sole, a volte con bambini dalle guance rosee che indossavano scarpe lucide e orologi da polso con il cinturino in pelle, e cavalcavano biciclette dal manubrio alto e raggi color oro – a differenza dei bambini (dei quartieri poveri) che avevano le guance butterate dai morsi dei pappataci e facevano correre vecchie ruote di bicicletta con un bastone.

Queste donne erano tutte un dondolare di borsette e un fruscio di sottane. Mariam ne scorse persino una che fumava al volante di una macchina. Avevano le unghie lunghe, dipinte di rosa o di arancio, e le labbra rosse come tulipani. Camminavano svelte su tacchi alti, con l’aria di essere incessantemente pressate da impegni urgenti. Portavano occhiali da sole e, quando la sfioravano passandole accanto leggere e veloci, Mariam coglieva un refolo del loro profumo. Immaginava che tutte fossero laureate, che lavorassero in ufficio, ciascuna dietro la propria scrivania, dove battevano a macchina, fumavano e facevano telefonate importanti a persone importanti.

Queste donne la mandavano in confusione. Le facevano toccare con mano il suo modesto livello, il suo aspetto insignificante, la sua mancanza di aspirazioni, la sua ignoranza del mondo”.

LE DONNE

Nella seconda parte del libro facciamo la conoscenza della giovane Laila e di suo padre, Babi. Siamo nella primavera del 1987 e uno dei discorsi più interessanti di questo padre “illuminato” riguarda proprio le donne.

“Per le donne la vita è sempre stata dura in questo paese, Laila, ma forse ora, con il governo comunista, sono più libere e hanno più diritti di quanto non abbiano mai avuto” …

“Adesso è un buon momento per essere donna in Afghanistan. E tu ne puoi approfittare, Laila. Naturalmente, la libertà delle donne – a questo punto scuoteva tristemente il capo – è anche uno dei motivi per cui sin dall’inizio laggiù hanno impugnato le armi”.

Con “laggiù” non si riferiva a Kabul, che era sempre stata una città relativamente liberale e progressista. Lì a Kabul le donne insegnavano all’università, avevano incarichi di governo, dirigevano scuole. No, Babi si riferiva alle aree tribali, in particolare alle regioni pashtun del sud, vicino a Kandahar, o a est, al confine con il Pakistan, dove raramente si vedevano donne per strada, e in ogni caso solo avvolte nel burqa e accompagnate da un uomo.

Si riferiva a quelle regioni dove uomini che vivevano secondo le antiche leggi tribali si erano ribellati contro i decreti comunisti che davano libertà alle donne, abolivano i matrimoni forzati, alzavano l’età minima per il matrimonio a sedici anni per le ragazze.

Laggiù, gli uomini ritenevano un insulto per le loro tradizioni secolari, diceva Babi, che il governo – un governo senza Dio, oltre tutto – dicesse che le loro figlie dovevano uscire di casa, frequentare la scuola e lavorare a fianco degli uomini. “Dio ci scampi da un simile evento!” esclamava Babi con sarcasmo.

Poi sospirava e aggiungeva: “Laila, tesoro, il solo nemico che l’Afghanistan non può sconfiggere è se stesso”.

Pensiamo, oggi, alle donne di Kabul, che non vogliono tornare a rinchiudersi nelle loro case, che cercano di lottare, di protestare, di far sentire le loro voci. Anche a costo della vita. Lo fanno per loro stesse, certo, ma anche e soprattutto per le loro figlie.

E’ proprio assurdo che coloro le quali danno e donano al mondo la vita, debbano essere così private di essa, in vari e disparati modi, in ogni angolo del mondo.

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