Donne al fronte: chi erano e cosa facevano le portatrici carniche. Solo gli abitanti della Carnia ricordano quelle donne straordinarie e ne vanno orgogliosi.

Le Portatrici Carniche, la loro storia è poco nota.

Se la ricordano solo gli abitanti della Carnia e gli alpini che erano di stanza alla Caserma Maria Plozner Mentil.

Unica caserma in Italia intestata ad una donna e ora in stato di abbandono.

Andiamo a conoscere insieme chi erano le Portatrici Carniche.

Perché sono state così importanti tanto da meritarsi parole di stima da parte del Generale Lequio, comandante del settore “Carnia” durante la Prima Guerra Mondiale.

La storia delle Portatrici Carniche si colloca tra l’agosto del 1915 e l’ottobre del 1917.

Il fronte che corre dalle sorgenti del Piave a quelle del Natisone, comprese le valli dell’alto Tagliamento, del Degano, del But e del Fella formavano la zona Carnia, composta da 31 battaglioni posta alle dirette dipendenze del Comando Supremo.

In questi territori vi sono presenti 10-12 mila uomini che hanno bisogno ogni giorno di essere vettovagliati, riforniti di munizioni, attrezzi vari, medicinali e così via.

I magazzini e i depositi militari sono situati a fondo valle e non ci sono rotabili che consentono il transito di automezzi né di carri trainati da animali.

L’unico sistema per raggiungere la prima linea del fronte, in alta montagna, è il trasporto a spalla seguendo sentieri o con le mulattiere.

Per effettuare questi rifornimenti non si possono sottrarre militari alla prima linea e, il Comando Logistico della Zona e quello del Genio, sono costretti a chiedere aiuto ai civili.

Tutti gli uomini validi sono chiamati alle armi e rimangono a casa solo donne, vecchi e bambini.

Le donne si misero subito all’opera

La situazione è davvero critica e le donne non esitano a cogliere il disperato invito.

Viene costituito un Corpo di ausiliarie formato da donne di età compresa tra i 15 e i 60 anni, dalla forza pari a quello di un battaglione di circa 1000 soldati.

Nascono così le Portatrici Carniche.

Esse non saranno militarizzate, cioè non vengono costrette al lavoro per forza di legge e soggette alla disciplina militare, ma la disciplina ferrea che si sono imposte durante le marce è delle più esemplari.

Vengono munite di un libretto personale di lavoro sul quale i militari addetti ai vari magazzini segnano le presenze, i viaggi compiuti, il materiale trasportato in ogni viaggio.

Viene dato loro un braccialetto rosso con stampato lo stesso numero del libretto e con l’indicazione dell’unità militare per la quale lavoravano.

Per ogni viaggio il compenso è di lire 1,50 centesimi, pari più o meno a 3,50 euro che vengono corrisposti mensilmente.

In caso di emergenza potevano essere chiamate a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Dovevano presentarsi all’alba di ogni giorno, presso i depositi e i magazzini nei fondo valle per ricevere in consegna il materiale e caricarlo nella gerla.

Le gerle una volta piene arrivavano a pesare anche più di 40 kg.

A quel punto le donne partono a gruppi di 15-20 e si arrampicano sulle montagne e si dirigono verso la linea del fronte.

Devono superare dislivelli che vanno dai 600 ai 1200 metri, ovvero dalle due alle cinque ore di marcia in ripida salita. In inverno il viaggio è reso più difficoltoso dal ghiaccio e dalla neve che arriva fino alle ginocchia.

Ogni giorno per ventisei mesi.

Lina Della Pietra

L’ultima portatrice rimasta in vita, Lina Della Pietra, è morta nel 2005, senza che alcuna corona o messaggio da parte degli amministratori locali o delle autorità politiche venisse recapitato ai familiari.

Oramai nessuno si ricorda più di loro, del loro sacrificio e del loro valore.

Ma non sono morte nell’anonimato.

Molte di loro prima di morire hanno voluto che sulle lapidi, dopo il nome, fosse incisa la frase: “Cavaliere di Vittorio Veneto”. Quattro parole che conferiscono nobiltà e dignità effettive a tutta la loro vita e riconoscono il grande coraggio che hanno dimostrato.