
Katia e Ale hanno tre figli e un cane e vivono viaggiando liberi per il mondo, a dimostrazione che la stabilità non risiede nelle mura di casa, ma nell’amore di una famiglia sana e felice. A oggi Katia ha viaggiato in 105 Paesi, 40 con i suoi bimbi.
Quella di Katia e Ale è una grande storia, non solo di una famiglia che vive viaggiando per il mondo, è una storia di amore e un esempio di compromesso. Katia è da sempre uno spirito nomade e ribelle che già a 16 anni dà inizio alla sua vita all’estero, ma si innamora di Ale, la cui felicità trova sicurezza in una vita ordinaria. Totalmente agli antipodi, per soddisfare le esigenze di entrambi, mettono su casa, ma una casa speciale: una casa su ruote!
Oggi Katia e Ale vivono nella loro splendida casa mobile e girano il mondo con la loro grande famiglia composta da tre figli – Leo, Romeo, Zenith – e un cane – Meredith, per gli amici Cana. Leo e Romeo non sono figli biologici di Ale, ma si sa: la genetica a volte non conta ed è vero il detto “i figli sono di chi li cresce”. Zenith invece è nato durante questo grande viaggio. Siete pronti a partire insieme a loro?
La storia di Katia: ragazza nomade e sognatrice.
Katia nasce e trascorre l’adolescenza a Milano, dove cresce divorando libri. Già a 4 anni sogna di vivere come i circensi, fare l’acrobata e girare per il mondo vivendo in grandi carovane. Sogna la polvere del Messico Centrale e gli elefanti della giungla indiana. A 16 anni è un’adolescente molto ribelle e curiosa, vuole scoprire tutto ciò che non conosce, vuole farlo da sola mettendosi alla prova. Così, durante il liceo linguistico, chiede di poter studiare all’estero.
Subito valuta svariati Paesi, iniziando dalla classica e gettonata Londra, ma il suo spirito anticonformista le fa scegliere una meta diversa e lontana: San Diego. «Sull’aereo piansi tutte le lacrime che avevo per il terrore della scelta fatta, non conoscevo nessuno, non parlavo e non capivo l’inglese» racconta Katia. «Ero poco più di una bambina in un luogo immenso. Il primo mese fu tutto così: pianti e paura. Poi mi abituai, e da sei mesi che dovevano essere, prolungai a un anno, poi due anni. Alla fine non tornai più in Italia.»
La storia di Ale: due lavori indeterminati e una casa.
Ale nasce e cresce nella periferia milanese, il suo spirito creativo si fa strada fin da ragazzino, frequenta il liceo artistico e tenta la strada dell’università, scoprendo che però non fa per lui. Decide così di trasformare una delle sue più grandi passioni in un lavoro: il nuoto. Dopo innumerevoli corsi di formazione, inizia a lavorare in piscina, e in dieci anni passa da essere semplice istruttore a diventare il responsabile dell’intera parte acqua in una delle piscine più prestigiose di Milano.
Ha due contratti a tempo indeterminato, un lavoro che ama profondamente, ma che non può svolgere secondo i suoi valori, perché si sa: in certi ambienti, troppo spesso l’apparenza conta più della sostanza, e ad Ale questa cosa non va bene e ne è divorato dentro. Ogni mese mette da parte un po’ di soldi per il futuro, ha una bellissima casa in affitto da “perfetto ragazzotto single”, come dice scherzando Katia, e pensa di comprarne una per avere un futuro sicuro.
Una vita fuori dal comune.
Il regalo per i 18 anni di Katia è un viaggio on the road negli USA. Prende lo zaino, un materassino e il biglietto dell’autobus per Tijuana e parte all’avventura. «Viaggiai in autobus e facendo autostop, dormendo dove capitava. A volte venivo ospitata da chi incontravo per strada, altre volte mi fermavo negli ostelli da pochi dollari al giorno, spesso osceni, tanto che se ci penso ora mi ritengo fortunata per non essermi presa qualche malattia. Una notte dormii in una stazione di benzina… ecco, quella fu una di quelle notti difficili che mi fece domandare perché mai non avessi festeggiato come tutti i diciottenni che conoscevo.
In quel periodo, però, accadde una cosa che mi fece capire che quella era davvero la vita che volevo. Una delle notti in cui dormii in spiaggia mi svegliai con uno strano rumore proveniente dall’acqua… davanti a me c’era un gruppo di balene, lì a pochi metri dalla riva. Le potevo vedere. Le potevo sentire. All’orizzonte si alzava una delle albe più belle della mia vita. Forse fu perché era davvero bella, o forse fu per le balene, non lo so, ma piansi. E, in quel momento, decisi che avrei sempre voluto vivere così.» (Leggi anche Viaggiando ho trovato me stessa: la storia di Ilaria)
Una vita di viaggi straordinari.
«Dopo i 18 anni, iniziai a lavorare nei villaggi turistici. Durante una stagione in Tunisia, conobbi un ragazzo dello staff di famiglia Tuareg, i nomadi del deserto del Sahara. Mi propose di fare un viaggio con lui e di vivere per qualche tempo a seguito della loro carovana. Ovviamente non ci pensai due volte! Attraversammo via deserto Algeria, Mali e Mauritania, in uno dei viaggi più complicati ma anche più belli e intensi della mia vita!»

La fine porta sempre a un nuovo inizio.
«Era luglio 2016 quando tornai in Italia dopo cinque anni in Australia. Rientrai a causa di problemi burocratici legati al visto. Ero completamente sola, con un bambino di poco più di tre anni, e incinta del secondo. Quel ritorno fu una delle parti più terribili e traumatiche della mia vita. I primi giorni mi rifugiai da una mia cara amica che mi venne a recuperare in aeroporto. Ero distrutta. Poi mi appoggiai da mia madre, cosa che presi malissimo. Ero andata via di casa da ragazzina con la volontà di non tornare mai più perché non ero mai riuscita a sentirmi a casa in Italia, e ora eccomi di nuovo lì, in quell’orrenda periferia di Milano.
Mi trovavo a non avere più nulla e a non sapere come gestire un bambino cresciuto per tre anni in un continente e in un contesto sociale completamente diverso. In quella disperazione, mi rifugiai nell’unico posto dove riuscivo a non sentirmi soffocare: la piscina. Per un mese interno andai a nuotare ogni giorno con mio figlio Leo. Arrivavamo di mattina ed eravamo sempre le ultime persone ad andarcene all’orario di chiusura. E lì conobbi Ale.»
Il destino viene a cercarti, ovunque nel mondo.
«Ale era il responsabile di una famosa piscina della zona est di Milano. Passammo un mese a guardarci senza mai rivolgerci la parola, finché un giorno mi regalò un ingresso omaggio con la scusa che avrei speso una fortuna se avessi continuato ad andare con quella frequenza. Lui usciva da una relazione molto complicata e io non ero assolutamente pronta a conoscere qualcuno. Un pomeriggio, il cielo si ingrigì, come fa sempre durante i temporali estivi.
Non riuscivo a far uscire Leo dall’acqua, tremavo dal freddo, pregandolo di ascoltarmi, fino a che iniziò a piovere e io, stremata, inizia a piangere per l’esaurimento. Piangevo perché ero stanca e non riuscivo a far uscire mio figlio dall’acqua, piangevo per l’Australia che mi mancava come l’aria, piangevo per la mia relazione finita, piangevo perché non avevo la minima idea di cosa fare della mia vita.
Arrivò Ale dietro di me e mi coprì le spalle con la sua maglietta rossa. Con tutta la calma del mondo, cercò di spiegare a Leo che doveva uscire dall’acqua. Leo lo ascoltò e uscì, e noi rimanemmo a parlare nella piscina deserta finché non fu sera. Mi chiese il numero di telefono, e mi disse che gli avrebbe fatto piacere portarmi a fare un giro per Milano un giorno. Aveva capito che non la sopportavo e voleva dimostrarmi che qualcosa di bello poteva esserci anche lì.
“Quel giorno” non arrivò mai, perché già la sera stessa uscimmo insieme. Era la prima volta che uscivo senza mio figlio. Parlammo tantissimo e trascorremmo tantissime ore sotto casa di mia madre, seduti sulle scale dell’androne. Ale mi disse che lui nelle relazioni non era mai riuscito ad avere qualcosa di “semplice”, le situazioni complicate sembravano rincorrerlo. Gli risposi che anche se ero incinta e anche se non sapevo dove sarei andata il giorno dopo, se fosse stato per me, avrei fatto l’amore con lui tutta la notte su quelle scale e chissenefrega del domani. Una settimana dopo andammo in vacanza insieme; un mese dopo, io e Leo ci trasferimmo a casa sua.»
Una casa per Ale, il mondo per Katia: un compromesso.
«Quello che ci ha spinti a iniziare questa vita è il fatto di volerci trovare a metà strada tra me e lui, una vita dove aver la possibilità di viaggiare e spostarci ogni volta che mi manca l’aria e sento il bisogno di sentire il vento scorrere nelle vene, ma con un luogo che sia “casa” in cui poter stare e avere le proprie cose e sentire una stabilità. Una casa con le ruote! Quando ci conoscemmo e ci innamorammo sapevamo di essere diversi, tanto, profondamente diversi. Io ho provato per un anno a vivere una vita “normale” fatta di casa, aperitivi con gli amici, pranzi della domenica, la nonna che teneva i nipoti, e così via.
Un giorno, tornado dal lavoro, Ale mi trovò a fissare fuori dalla finestra piangendo. Si rese conto che non avrei potuto continuare a vivere quella vita, la sua vita, ma al tempo stesso io sapevo che lui non avrebbe mai potuto vivere la mia vita, una vita messa dentro uno zaino da 50 lt. Un giorno, però, Ale ebbe l’ennesimo screzio sul lavoro e mi mandò un sms: partiamo! Due mesi dopo, mise in vendita la sua amata BMW per comprare una Jeep, con la quale partimmo “senza biglietto di ritorno”. Viaggiammo tra Francia, Spagna, Marocco e Canarie. Poi girammo il sud-est asiatico: Myanmar, Thailandia, Vietnam, Laos, Cambogia.
Tornammo e comprammo il nostro primo “camper”, un minuscolo Volkswagen T3 che allestimmo e con cui girammo l’est Europa. Arrivammo oltre Capo Nord in pieno inverno con una temperatura di -25 gradi e nessuna preparazione, poi puntammo l’est estremo arrivando fino al confine siriano e all’Iran, dove scoprimmo di aspettare il nostro terzo bimbo. Dopo la sua nascita, che avvenne tra le colline del Chianti, passammo alcuni mesi in America del Sud tra Messico, Guatemala, Belize e Costa Rica. Acquistammo un nuovo furgone da lavoro che allestimmo nuovamente in base alle esigenze di tutti e cinque – sei, cane compreso!»
“È una vita bellissima, ma serve organizzazione, e serve possedere il minimo indispensabile perché ogni cosa superflua diventa un ingombro talmente grande da essere invalidante.”
Scuola e istruzione: come far studiare i bambini in viaggio?
«Far studiare… Già questo concetto a me non piace proprio, perché io non credo sia corretto “far studiare” ma credo nel far appassionare, incuriosire, interessare, mostrare, vedere, vivere. Abbiamo deciso di far seguire ai nostri figli un percorso di unschooling e non di homeschooling. L’homeschooling segue il programma scolastico adattandolo e cucendolo su ogni bambino. L’unschooling invece non segue nessun programma, ma i principi secondo cui i bambini imparano con modi, tempi e “cose” da loro scelte, secondo le loro naturali predisposizioni. Se parliamo di mera nozionistica, releghiamo a questa un’ora al giorno.
Quello però non è ciò che io definisco “istruzione”, ma serve solo per passare l’esame. I nostri figli non studiano in viaggio, i nostri figli imparano a vivere viaggiando. I nostri figli sanno come è fatta una moschea, sanno che esistono il Corano, la Torah, la Bibbia, le campane tibetane e le offerte di incenso.
Conoscono l’architettura romana e quella araba. Sono capaci di dire “ciao” in thailandese e sanno che non c’è bisogno di parlare la stessa lingua per diventare amici. Sanno riconoscere le erbe spontanee e i fiori commestibili. Come aprire un cocco a mani nude, come arrampicarsi su una palma senza cadere o scorticarsi i piedi, sanno mangiare con le bacchette, giocano a palla con i bambini che incontrano anche se non parlano la loro lingua. E sanno fare i nodi marini, leggere una bussola, leggere una cartina e stimare un tempo di percorrenza in base ai km. Noi non li “facciamo studiare”, loro imparano conoscendo persone, culture, luoghi, situazioni, realtà.
I nostri bambini hanno imparato che esistono tantissimi mondi, modi di vivere, lingue, abitudini, cibi, tantissime cose che non si conoscono ma non per questo sono sbagliate o brutte. E che non esiste una vita “normale”. Ma soprattutto, i nostri bambini sanno quali sono le loro radici, le loro origini e sanno che non serve vivere in un luogo per essere stabili. La stabilità va cercata dentro di noi, non in quattro mura e qualche conoscenza. Questo è ciò che cerchiamo di insegnare loro ogni giorno.»
Lavorare viaggiando.
«Lavoriamo creando contenuti per il web e supporti cartacei. Io scrivo come storyteller e ghostwriter e Ale completa le mie parole con la parte grafica. Creiamo inoltre Guide Experience di viaggio in luoghi che abbiamo visitato e che sentiamo “nostri”, con itinerari, emozioni, natura – tantissima natura! – curiosità, van-life, ricette di cucina, profumi, sapori e la storia di quei posti vista attraverso i nostri occhi. A marzo partirà anche il nostro nuovo progetto di organizzazione di viaggi, principalmente per donne e famiglie con bambini. I viaggi saranno improntati sul senso di comunità matriarcale, su attività, luoghi ed esperienze specifici e studiati per donne con workshop, seminari e visite per bambini in ottica unschooling. Per saperne di più seguici su Instagram famwithoutplan.»
Difficoltà in viaggio?
«Tormenta di sabbia nel deserto del Sahara, rimasti bloccati due giorni in attesa che cessasse; rotto una puleggia del motore nella regione subsahariana ai confini con la Mauritani; ingresso in Siria rifiutato a causa dei timbri sul mio passaporto, “persona non gradita”; rimasti bloccati in aeroporto in Messico perché il cane non aveva, a detta loro, le vaccinazioni giuste.»
Ricordo più bello in viaggio?
«L’aurora boreale; i delfini spuntati nella baia; le mongolfiere all’alba; le scimmie urlatrici; l’alba a Stonehenge; la foca nel fiordo della cascata che si tuffa al mare in Scozia; la scoperta di aspettare un terzo figlio, assolutamente non previsto, in un parcheggio di Ankara mentre stavamo richiedendo il visto iraniano.»
Cosa avete imparato viaggiando?
«Che non esiste la normalità. La normalità è solo quella che ognuno di noi ritiene essere. Non esistono confini, se non quelli politici. Non esistono “cose sbagliate”, ma solo cose che non si conoscono. E che la diversità non esiste, esistono peculiarità.»
Viaggiare è scappare dai problemi?
«Ho lasciato l’Italia a 16 anni senza nessuna intenzione di tornarci perché non è il mio posto nel mondo, c’è una mentalità troppo diversa dalla mia che mi fa vivere male. Adesso, a quasi 37, confermo e sottoscrivo lo stesso. C’è chi dice che scappo. Sì, scappo da qualcosa che non mi piace! Non ho nessuna intenzione di passare la vita in un luogo con persone che non “sento”. Per Ale è diverso, a lui l’Italia non dispiace e ci vivrebbe volentieri, ma ha deciso di condividere la sua vita con me che non ci passerei nemmeno un giorno. Per un periodo l’ha presa come una sconfitta, proprio perché sentiva di scappare dai problemi tipicamente italiani. Lui vorrebbe contribuire al cambiamento per un posto migliore. Io no, perché non vedo margine di miglioramento nell’Italia. Preferisco concentrarmi sul vivere al meglio.
Questo non significa che la nostra vita sia perfetta. Ci sono giorni in cui riusciamo a incastrare tutto talmente bene che ci sentiamo bravissimi: studio, lavoro, divertimento. Altri in cui invece ci svegliamo tardissimo, esausti, ceniamo con un aperitivo e ci sentiamo bravi solo per il semplice fatto di essere riusciti a sopravvivere. La formula magica non esiste. Ci sono giorni che vanno bene, altri meno, altri un disastro, ma questa vita l’abbiamo fortemente voluta e sappiamo che se oggi è uno dei “giorni no” probabilmente domani sarà un “giorno sì”.»
Una donna da sola avrebbe più difficoltà a fare questo tipo di vita?
«Quando Leo aveva tre mesi, tornai in Australia. L’Australia era, ed e ancora, l’unico luogo che sento “casa”. Vivevo lì già da anni, ma ero dovuta andare a partorire in Italia per questioni burocratiche legate all’assicurazione sanitaria. Dovevo riprendermi da una depressione post parto e dall’idealizzazione della maternità della cultura occidentale che ci vuole mamme-felicissime con bambini-perfetti, mentre io ero tutto meno che felice e Leo era tutto meno che il bambino perfetto. Arrivata in Australia, comprai un minivan e mi organizzai con un materasso in terra per dormire, una tanica da 10 lt e un fornelletto a gas da campeggio. Abbiamo vissuto e viaggiato in lungo e in largo in tutta l’Australia da soli, io e lui, per più di un anno. Basta come riposta?»
Definizione della parola “viaggiare”.
«Smettere di voler tornare a casa.»
Ci salutate con un consiglio per chi vorrebbe viaggiare come voi ma ha paura?
«È una vita bellissima, fatta di albe spettacolari, tramonti da togliere il fiato, il mare più cristallino che si possa immaginare perché si va fuori stagione, di luoghi incontaminati, di notti ad ascoltare onde e rumori del bosco, di falò con amici conosciuti qualche giorno prima, ma che nel giro di breve diventano la tua famiglia. Una vita di scoperte, di viaggio più puro e autentico nel vero senso del termine. Ma è anche una vita tanto difficile, fatta di poco, a volte di pochissimo, di rinunce, di addii e di saluti, di amici e famiglia persi perché non approvano, di mancanze, di difficoltà. È una vita bellissima, ma non è una vita per tutti.»
Letture consigliate: Prometto che ti darò il mondo di Giulia Lamarca
Sostienici, cliccando qui: PINK
Comments are closed.