Nel 1844-1845, Dickens si recò in Italia con la famiglia. Si stabilì a Genova, prima ad Albaro e poi a Villa delle Peschiere, e da qui si recò nelle principali città: La Spezia, Roma, Napoli (con il Vesuvio ancora molto attivo), Firenze, Bologna, e Venezia.

Impressioni Italiane. Dickens mette subito in chiaro che non vuole soffermarsi sulle opere arte, pur essendone estimatore, ma sulla vita vera perché da quella è venuto a trarre ispirazione e nuova linfa vitale per i suoi romanzi: “Io […] sebbene ardente ammiratore della scultura e della pittura, non mi diffonderò a scrivere di quadri e di statue celebri”.

La sua visione dell’Italia, le sue impressioni sul nostro Paese, complessivamente intesa, e già solo per questo, risulta però estremamente riduttiva e troppo semplicistica.

Genova è stigmatizzata per lo sporco e le puzze, i vicoli strettissimi e il suo disordine; rimangono alcuni mesi ad Albaro, sempre in Liguria, ma anche qui le note parlano di rovina e trascuratezza.

Piacenza è definita come la “scura, decadente, vecchia Piacenza, piena di erbacce sporcizia e pigrizia.

Roma Dickens arriva nel pieno del Carnevale: descrive la visita ai Musei Vaticani, la messa del Papa in San Pietro e al Colosseo: “Una rovina, Dio sia ringraziato!”.

Assiste  alla cruenta decapitazione di un malvivente e la sua attenzione è richiamata dalla popolazione intervenuta al crudele spettacolo, molto diversi dai loro nobili avi:  

“Romani dall’aspetto truce, del più basso ceto, in mantello blu, mantello ruggine o stracci senza mantello, andavano e venivano o parlavano tra loro. Donne e bambini starnazzavano ai margini della scarsa folla. Un largo spiazzo pieno di pozzanghere era stato lasciato completamente vuoto, come un punto di calvizie sulla testa di un uomo. Un mercante di sigari, con un recipiente di coccio pieno di cenere di carbonella in mano, andava su e giù gridando le sue mercanzie. Un pasticciere ambulante divideva la sua attenzione tra il patibolo e i suoi avventori. Dei ragazzi tentavano di arrampicarsi sui muri e ricadevano giù. Preti e monaci si facevano largo con i gomiti tra la folla e si alzavano sulla punta dei piedi, per dare un’occhiata alla lama; poi se ne andavano.”

A Napoli rimane deluso: lo spettacolo per le strade è degradazione:

“La vita per le strade non è pittoresca e insolita neanche la metà di quanto i nostri sapientoni giramondo amino farci credere […] Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi: goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri” .

Anche Firenze è sommariamente ricordata per la bellezza dei palazzi e del paesaggio ma ancora una volta tutto l’interesse di Dickens è rivolto a registrare un fatto di cronaca nera.

“Separiamoci dall’Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori, affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente e mite. Anni d’incuria, d’oppressione e di malgoverno hanno esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti per i quali l’unione significava la scomparsa – e la divisione delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno, sorgere da queste ceneri […] L’Italia ci aiuta ad imprimerci in mente la lezione che la ruota del Tempo gira per uno scopo, e che il mondo è, nei suoi caratteri essenziali, migliore, più gentile, più tollerante e più pieno di speranza a mano a mano che gira”.

Incredibilmente attuale questo giudizio amaro sul nostro bellissimo Paese. Unico. Inimitabile.