Pena ridotta allo stupratore: la donna era troppo disinibita e lui un “soggetto mite”. Il Tribunale di Monza aveva condannato un uomo a 5 anni di carcere con il rito abbreviato. In secondo grado i giudici di Milano riducono la pena di otto mesi, con una motivazione che fa a dir poco rabbrividire e che crea un precedente molto pericoloso, lesivo dei diritti della donna. 

La violenza. La vicenda risale all’8 giugno 2019 quando a Vimercate, in provincia di Monza, un uomo abusa della moglie perché lo tradisce con diversi «uomini conosciuti su Facebook». La vittima è una donna di 43 anni, che viveva in una roulotte con il marito. Lui ha 63 anni e viene definito «soggetto mite», così mite che per una notte intera, ripeto, una notte intera, picchia la moglie servendosi anche di un tavolino di legno, le dà pugni in viso e schiaffi e abusa ripetutamente di lei finché non arrivano i Carabinieri a fermarlo. Ma l’uomo per la Corte d’appello di Milano è un «soggetto mite», che ha “agito” perché «esasperato dalla condotta troppo disinvolta della donna». Circostanze che i giudici ritengono non sufficienti ad attenuare la responsabilità, ma che sono «indice di una più scarsa intensità del dolo».

La I Corte d’Appello di Milano condivide con i giudici di Monza di primo grado quanto stabilito sulla violenza e sugli abusi ma concorda con il legale dell’imputato sulla necessità di tenere conto del «contesto familiare e sociale caratterizzato da anomalie quali le relazioni della donna con altri uomini, dall’imputato quasi favorite o comunque non ostacolate», almeno finché lei non resta «incinta di un altro soggetto». Negli atti difensivi, che riportano il percorso intrapreso in carcere dallo stupratore, «emerge» come l’imputato sia un «soggetto mite e forse esasperato dalla condotta troppo disinvolta della convivente, che aveva passivamente subìto sino a quel momento». Il che, «se certo non attenua la responsabilità», per i giudici «è tuttavia indice di una più scarsa intensità del dolo, e della condizione di degrado in cui viveva la coppia».

In pratica, se sei una fedifraga lo stupro un po’ te lo meriti. La senatrice del PD Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio, considera la sentenza un precedente «preoccupante e pericoloso»:

«Ancora una volta la donna vittima si trasforma in soggetto imputato, ancora una volta agiscono pregiudizi e stereotipi culturali anche in un’aula di Tribunale e questo è inaccettabile». E continua: «Agli operatori di giustizia rischia ancora di mancare la specializzazione necessaria per leggere la violenza in maniera corretta. Chiederemo gli atti e approfondiremo il caso. Non può essere il contesto di degrado o le presunte relazioni della vittima con altri uomini a giustificare una violenza sessuale aggravata dal sequestro». 

La Valente aggiunge infine: «La violenza sessuale non può avere scusanti o giustificazioni». 

La vicepresidente della Camera, Mara Carfagna aggiunge: «Abbiamo buone leggi contro la violenza sessuale, vogliamo che siano applicate». E aggiunge che la sentanza «si basa sulla convinzione che la vittima meritasse una punizione per il suo comportamento, una sorta di attenuante morale per un delitto che non ha giustificazione. Questa mentalità non dovrebbe trovare spazio nelle sentenze, perché non è mai la vittima a essere colpevole». 

La senatrice Pd Valeria Fedeli aggiunge: «Come ha stabilito la Convenzione di Istanbul, la violenza sessuale è violazione dei diritti umani sempre e oltre che lesivo della dignità della vittima è chiaramente frutto di impreparazione e conoscenza insufficiente del fenomeno ritenere che possano sussistere attenuanti. Anche la cultura giuridica deve aggiornarsi e superare pregiudizi e lacune».

Ne abbiamo finora viste di cotte e di crude, come la sentenza della Cassazione del febbraio del 1999 secondo cui una donna se porta un indumento non “sfilabile” facilmente come un paio di jeans è automaticamente consenziente o se una donna è troppo brutta (aprile 2019) non può esserci stupro. 

Basta indignarci, basta voltare le spalle e dire: «Come al solito», perché quel “solito” è fatto anche da noi; queste sentenze a dir poco opinabili siamo noi per prime ad avallarle. E se continuiamo a non reagire, a non alzare la voce, vorrà dire che siamo tutti collusi e ce le meritiamo certe sentenze