La (quasi) assenza di musiche in un lungometraggio è una scelta coraggiosa. In questo caso è fortemente motivata dalla tematica che il film, La figlia di Gyeong-ah, si occupa di denunciare. In modo rispettoso e delicato, la regista Kim Jung-eun firma il suo primo lungometraggio affrontando il fenomeno (alquanto spaventoso) del revenge porn. A sostituire la musica è la vibrazione del cellulare – il suono preponderante (nelle nostre vite, come nel film) si impadronisce della narrazione già dallo schermo nero che mostra i titoli di testa.

Gyeong-ah è una donna sulla cinquantina, lavora come infermiera per gli anziani. Sua figlia, Yeon-soo è un’insegnante ventenne, alle prime armi. Quando Yeon-soo lascia il suo ragazzo, lui non accetta la separazione; dopo le molteplici chiamate inopportune, decide di vendicarsi nel modo più crudele, infantile e becero: inviando un video di loro due che fanno sesso ad amici e parenti della ragazza.

Come ci svela il titolo, il punto di vista della narrazione non è solo quello della vittima “diretta”, ma, punto di forza del film, la messa in scena del dramma si concentra anche sulla vittima “indiretta”: la madre di Yeon-soo. È infatti la madre la prima a vedere il video. Quando riceve il messaggio dall’ex della figlia, l’inquadratura, perfettamente centrata, mostra Gyeong-ah allo specchio, gli occhi fissi sullo smartphone.

Si tratta della scena, forse, più studiata del film. La regista sceglie di non mostrare immagini provocatorie. Vediamo solo pochi secondi dell’inizio del video-ricatto, in cui Yeon-soo è seduta per terra, in maglietta e pantaloncini. Questa scelta, rispettosa e cauta, riesce a concentrare in essa tutte le ambiguità e i dubbi che sorgono nell’arco della narrazione. Cosa si vede realmente nel video? Lei era d’accordo con l’idea di filmare tutto?

Lento e silenzioso, il lungometraggio scava nell’attualità dello schermo, schermo che è specchio deformante e insidioso.

Yeon-soo si nasconde, dagli amici come dalla madre, come dallo schermo. La sua reazione di pancia è infatti quella di graffiare e rompere lo schermo delle brame. Non distrugge tutto lo schermo, ma solo quella porzione centrale, che poche inquadrature prima aveva mostrato il suo volto riflesso.

L’identità virtuale riesce a stare al passo con l’identità terrena e la lotta che Yeon-soo dovrà combattere, più del processo e con e contro gli altri, è una battaglia interiore, per fare pace con il suo sé violentato e gettato in quel tritacarne che è internet.

Ferocemente attuale, il film, presentato nella prima giornata del Festival del Cinema Coreano di Firenze (FKFF), fa riflettere proiettandoci in un universo infernale che è, dolorosamente, un pericolo in cui ogni donna del mondo di oggi potrebbe imbattersi.