Di Leopardi si è scritto molto e di più. Giacomo ha avuto così tanta fortuna post mortem che probabilmente mai avrebbe potuto anche solo immaginarla. Eppure era una gloria letteraria agognata, fin da quando era fanciullo. Appena assaporata negli ultimi tempi della sua breve vita – morì a (quasi) 39 anni. I colleghi letterati, soprattutto quelli napoletani, mal accoglievano il suo pessimismo cosmico e, di fatto, lui si è sempre sentito straniero ovunque, nel mondo.
Per questo, parlare di Recanati e dei luoghi in cui ha vissuto Giacomo Leopardi la maggior parte della sua vita potrebbe sembrare un affronto a lui stesso. Perché mal sopportava – come la sorella Paolina – il “selvaggio borgo natìo”, percepito dai vent’anni in poi come una vera e propria prigione.
La grande fortuna di Giacomo ai suoi tempi (nacque nel 1798), da lui stesso riconosciuta e dichiarata nelle Operette morali – fu di nascere in una nobile famiglia, tra le più ricche di Recanati. Una fortuna non da poco, considerando l’epoca storica. Casa Leopardi era – ed è – grande, curata, bellissima ed imponente sulla piazza oggi denominata Piazzuola del Sabato del Villaggio. E’ affascinante attraversare questa piccola piazza immaginando le scene che lui descrisse nell’omonima poesia (qui ne è riportata una parte):
“Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno”.
PARAFRASI:
“Adesso la campana annuncia la prossima festività e diresti che a quel suono il cuore si riempia di speranza. I ragazzi in gruppo, gridando e saltando sulla piccola piazza, fanno un allegro rumore; nel frattempo il contadino, fischiando, ritorna a casa per consumare la sua modesta cena e fra sé e sé pensa alla domenica, il giorno in cui può riposarsi. Poi, quando intorno è spenta ogni altra luce e tutto il resto tace, senti il picchiare del martello, senti la sega del falegname, che nella bottega chiusa veglia al lume della lucerna, e si dà da fare affrettandosi per finire il suo lavoro prima del chiarore dell’alba. Fra i sette giorni della settimana questo, pieno di speranza e di gioia, è il più gradito; domani il trascorrere delle ore porterà un senso di fastidio e di tristezza, e ciascuno ricomincerà a pensare al faticoso lavoro abituale”.
Casa Leopardi sembra una piccola Versailles.
Soprattutto nell’atrio di ingresso e nel salone attiguo al giardino, una ricchezza davvero non da poco, dove ancora oggi si possono ammirare numerosi quadri e le collezioni del padre Monaldo. Da quella delle sfere – sembrano formare un piccolo sistema solare – a quella delle monete, ma soprattutto quella dei libri. Una biblioteca composta da quattro stanze ricca di volumi fino al soffitto – circa ventimila tomi antichi trattanti lo scibile umano. Il conte la mise a disposizione della sua comunità in un atto di grande avanguardia culturale per i tempi.
Da qui ci si può affacciare alle numerose finestre. Giacomo trascorse gran parte della sua vita leggendo, studiando e scrivendo in queste stanze. Da qui, proprio di fronte, si può vedere la casa di Teresa Fattorini, coetanea di Giacomo e figlia del cocchiere. In questa casa la famiglia Leopardi aveva infatti le scuderie. Oggi, al piano terra della stessa, si trovano la biglietteria e il bookshop di Casa Leopardi. Il panorama è più o meno lo stesso di quello che vedeva anche il poeta, ed è questo a rendere il tutto ancora più significativo.
Teresa e la sua prematura morte hanno ispirato le strofe di A Silvia (qui ne è riportata una parte):
“Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno”.
PARAFRASI:
“Io, di tanto in tanto, trascurandogli studi amati e le pagine su cui mi affaticavo, dove la mia giovinezza e il mio corpo andavano consumandosi,dai balconi della casa paterna mi mettevo ad ascoltare il suono della tua voce,
e il ritmo rapido delle tue mani affaticate nel tessere la tela.
Guardavo il cielo sereno,le vie color dell’oro, le campagne,e da un lato il mare, dall’altro le montagne.
Non esistono parole umane per descrivere ciò che provavo in quei momenti”.
Nella parte superiore del palazzo ancora vivono i diretti discendenti della famiglia Leopardi. Di tanti figli che ebbe il conte Monaldo con la moglie Adelaide Antici – ben dieci, sebbene almeno tre morti in fasce – soltanto uno, Pierfrancesco, diede continuità alla discendenza. Paolina, la terzogenita, come Giacomo, non si sposerà mai e Carlo morirà senza eredi nonostante due matrimoni. Luigi fu colpito dalla tisi a soli 24 anni quando Giacomo si trovava a Firenze. Per gli innumerevoli problemi di salute, Giacomo non aveva potuto affrontare il viaggio per dare l’estremo saluto al caro fratello appassionato di musica.
Certamente la sensazione di prigionia di Leopardi nel suo bel palazzo fu causata dal carattere gelido, altero ed esageratamente religioso della madre. Ma anche dall’ossessivo interesse per i libri e per gli studi da parte del padre, che addirittura sottoponeva i figli – Paolina compresa, nonostante fosse una donna – a saggi e verifiche piuttosto difficoltose alla presenza di familiari e nobili appositamente invitati.
Giacomo dei figli era il più incline allo studio e quindi colui che maggiormente usufruirà con gratitudine della compagnia di tutti questi libri. Da solo e per comparazione, ad appena 14 anni, conosceva, oltre al latino, anche il greco e l’ebraico. Risentirà molto di questo contesto familiare, allietato soltanto dalla presenza dei fratelli a lui più vicini d’età, come Carlo e Paolina. Sarà considerato un prodigio dai suoi stessi precettori, che affermeranno presso il conte che non avevano più nulla da insegnare a Giacomo. Nonostante ciò, la fama di conoscenza del poeta diventerà una vera e propria malattia che lo costringerà ad anni di “studio matto e disperatissimo”. Questo di certo non aiutò la sua già cagionevole salute.
Questa indole solitaria e i problemi fisici non gli permetteranno di avere un buon rapporto nemmeno con i recanatesi. I suoi concittadini lo deridevano: egli era gobbo e proprio così lo apostrofavano con disprezzo, oltre a ritenerlo un “saccentuzzo” ed un eremita.
Ovunque si può trovare la biografia di Giacomo Leopardi, moltissimi libri e studi sono stati fatti su di lui, perfino sulle sue supposte malattie fisiche e psicologiche.
Sarebbe impossibile anche solo riassumere in un articolo la sua mole di lavoro: nel corso degli anni ha scritto migliaia di pagine, opere, antologie, canti, poesie, pensieri, in una grafia raffinata e precisa, che sembra quasi stampata.
Perciò, in questo articolo, mi ripropongo piuttosto di suggerire un breve viaggio letterario nei territori di Giacomo Leopardi consigliando certamente una tappa a Recanati. Il suo centro storico merita molto, insieme a Casa Leopardi con la biblioteca, al museo, all’Orto sul Colle dell’Infinito curato dal FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) dal 2017. Lì vicino si trova anche il Centro Nazionale di Studi Leopardiani, completamente restaurato nel 2019.
Il famoso “colle dell’Infinito”, a pochi passi da Casa Leopardi, sul monte Tabor, offre molti scorci sulle colline e le campagne circostanti. Spesso qui andava a passeggiare Giacomo, in cerca di aria buona per i suoi problemi di asma e soprattutto di refrigerio alla sua inquietudine di vita. Grande e alto svetta sul muro perimetrale la scritta “SEMPRE CARO MI FU QUEST’ERMO COLLE” della famosissima poesia L’infinito:
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare”.
PARAFRASI:
“Questo colle solitario mi è sempre stato caro, e cara mi è sempre stata questa siepe che impedisce la vista di una larga parte della linea dell’orizzonte. Ma sostando e guardando davanti a me, mi figuro con l’immaginazione spazi sconfinati oltre quella siepe e silenzi sconosciuti all’umanità e una immensa quiete; e davanti a questi pensieri il mio cuore è sul punto di smarrirsi. E non appena sento il vento frusciare tra le foglie delle piante, io confronto quell’infinito silenzio alla voce del vento: e mi vengono in mente l’eternità, il tempo passato e la stagione presente e viva e la sua voce. Così il mio pensiero sprofonda in questa immensità e in essa si annega: e il sentirmi naufragare provoca in me una sensazione di dolcezza”.
Per un attimo nemmeno troppo breve quella pace assale positivamente anche il visitatore. Sembra di trovarsi accanto al giovane Giacomo che riesce a riprendere fiato dagli studi ossessivi, dai problemi alla vista e al respiro. Da tutta quella sofferenza di vivere che quasi mai si quietò. E vien voglia di voltarsi e sorridergli fissandolo, amorevolmente, negli occhi chiari.
Completata, con calma, la tappa recanatese, altra sosta obbligatoria e a pochissimi chilometri è Loreto. Un gioiellino in cui sembra di respirare un’aria nuova (di spiritualità) e vecchia (di un’Italia di altri tempi, ivi compresa la bontà delle sue trattorie caratteristiche. Qui ho gustato degli ottimi gnocchetti al pistacchio e guanciale!).
La piazza e il duomo ci fanno sentire al centro di un piccolo mondo. L’architettura merita uno sguardo attento e da più angolazioni, sia dentro che fuori la chiesa. Affascinante la storia della Santa Casa di Maria di Nazareth, qui traslata, secondo la tradizione cristiana, alla fine del XIII secolo e custodita al centro della Basilica dalla fine del XV secolo.
Da qui al mare (visibile da Loreto) il passo è breve.
La riviera del Conero merita un soggiorno rilassante, se possibile con almeno un giro in barca per poterla ammirare al meglio. Si tratta di coste non molte ampie, costituite per lo più di ciottoli e sassi e in molti casi raggiungibili solo a piedi o, appunto, in barca.
Merita una breve sosta anche la Chiesa di Santa Maria di Portonovo, addirittura risalente all’XI secolo, “luogo del cuore” del FAI. Piccola, ben conservata, circondata da silenzio e pace per la sua posizione panoramica e isolata.
Per una passeggiata rilassante o un aperitivo dopo una giornata di mare nella zona del Conero, non può mancare una visita nel tardo pomeriggio a Numana e una cena (o dopo cena) presso la meravigliosa piazza di Sirolo, poco distante e affacciata sul mare.
Sono tutti luoghi che ci parlano di un’Italia (che di certo è stata) ricca. Di storia, cultura, mezzi e risorse di ogni tipo, in cui il mare è lambito, davvero a pochi passi, dalla compagna e dalle colline. Il tempo qui sembra essersi fermato e la qualità del cibo e del vino è eccellente (cosa, questa, che allieta sempre qualsiasi viaggio!).
Presso il piccolo, ma ricchissimo museo di Casa Leopardi, tra le tante cose che mi hanno colpita (come i giocattoli ben conservati, tra i quali un “altarino” per giocare alla messa!), vi è senza dubbio una pubblicazione di Giacomo Leopardi dal titolo altisonante e poco conosciuta. “Crestomazia italiana cioè scelta di luoghi insigni o per sentimento o per locuzione raccolti dagli scritti italiani in prosa di autori eccellenti d’ogni secolo per cura del conte Giacomo Leopardi”, dell’editore Stella di Milano, per il quale Giacomo aveva lavorato alcuni anni, datato 1827.
A quei tempi le antologie andavano di moda. Anche Giacomo ha pensato di raccogliere i migliori brani in prosa (e poesia) della letteratura conosciuta fino ad allora (e lui ne conosceva, e ne aveva a disposizione, davvero molta!).
Questa raccolta, nella parte prima del primo volume intitolata da Leopardi, al capitolo secondo, “Descrizioni e Immagini – Scritti di Verri, Sannazzaro, Firenzuola, Bonfadio, Segneri, Cellini, Bartoli, Serdonati”, somiglia molto ad una sorta di “Viaggi letterari”, e a quello che questa stessa rubrica vorrebbe offrire ai lettori. Poter viaggiare con l’immaginazione leggendo quello che alcuni autori hanno scritto attraversando certi luoghi. Magari poter poi compiere gli stessi viaggi guardando i panorami che hanno ispirato quelle righe e riflettere su esse.
All’interno di questa sezione della Crestomazia si trovano descrizioni in prosa fatte da vari autori del tempo passato. Esse riguardano, ognuna in un capitolo a parte, rispettivamente il lago di Garda, l’isoletta di Ormuz, il Brasile, le isole Molucche e la Cina.
Il desiderio di viaggio, d’altronde, era molto forte anche in Giacomo, dopo anni vissuti da recluso in casa.
Riuscirà a strappare il permesso di andare via al padre Monaldo dopo molto tempo (e dopo una tentata fuga dallo Stato Pontificio non andata a buon fine). Visiterà prima Roma, poi Milano, Bologna, Firenze, Pisa e infine Napoli. Raramente si sarà sentito a casa, tranne forse negli ultimi anni di vita, quando visse l’intensa amicizia con Paolina e Antonio Ranieri.
Il 15 giugno 1837, il giorno dopo la morte di Giacomo, così si troverà scritto, per volere proprio di Antonio, nella rivista “Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti”:
“Uno de’ più potenti ingegni che sieno surti a questi ultimi anni; il conte Giacomo, di Recanati, filosofo e filologo di rarissima eccellenza, prosatore più che sublime, ma poeta incomparabile. Il grido del suo nome, già grandissimo in Italia, ma anche in Francia, in Germania e in Inghilterra, non più soffocato dall’invidia, che non suole durare oltre la tomba, sorvolerà i secoli finché sarà memoria fra gli uomini del bello e del grande. La favilla divina che s’accese sotto quella giovane chioma, non vi fece dimora oltre a trent’otto anni, undici mesi e tre dì”.
Mai profezia fu tanto precisa e azzeccata.
(Bibliografia e sitografia:
“Canti”, Giacomo Leopardi. “Il poeta favoloso” Alessandra di Prisco, La Spiga edizioni.
Casa Leopardi Recanati, visita guidata e sito ufficiale. C
entro Nazionale di Studi Leopardiani per gentili e puntuali informazioni via mail.
Per le parafrasi delle poesie, Maria Cristina Cabani su studenti.it.
Per la consultazione della “Crestomazia”, Google libri, archivio online.
Sito ufficiale del FAI.
(ph. Maria Letizia Cerati)
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