Intervista al giornalista Mattia Marzi. Un ragazzo capace di trasformare la passione della musica in una storia da narrare e argomentare fino all’ultima riga di ogni articolo o libro scritto. Tra esperienze di vita, Coez, Sanremo e un sogno nel cassetto che gli fa citare anche Star Wars, questo è Mattia. Scopriamo insieme come una passione può diventare il lavoro di una vita
MATTIA MARZI INTERVISTA – Spogliarsi del pesante abito del fan adolescenziale in cameretta e indossare i panni di un giornalista innamorato della notizia. Privilegiare la news e l’informazione, piuttosto che il titolo e la pioggia di like. Questo è Mattia Marzi, classe 1994, giornalista del Magazine Rockol e de Il Messaggero, nella rubrica spettacolo. Marzi è anche autore di due libri, Tu lo conosci Coez (2018) e Mamma Roma. La terza scuola di cantautori della Capitale (2019).
Ho il grande piacere di intervistarlo direttamente da una hall semideserta di un Hotel a Padova. Un sabato pomeriggio già buio, ma ricco di colori e addobbi natalizi. Io a Padova, lui a Roma, la tecnologia vecchio stampo di telefono e registratore ad assisterci.
“È nato nel 1994, l’anno in cui Laura Pausini cantava “Strani amori” e Ambra spopolava con “T’appartengo”, mentre gli Oasis diventavano star con “Live forever”, Rick Rubin rivitalizzava Johnny Cash e un MTV Unplugged destinato a diventare leggendario chiudeva la storia dei Nirvana dopo la morte di Kurt Cobain. Non parla di cose che non conosce”.
Mattia Marzi. Biografia su Rockol
Iniziamo Mattia, perché non parlare del tuo approccio con la musica. Dove parte questo amore abbinato a quello di raccontare e scrivere sotto un linguaggio tecnico e specifico quale il giornalismo?
Innanzitutto c’è un luogo comune che riguarda dire che la critica musicale o in generale rappresenti un musicista, un attore o uno sportivo che non ce l’ha fatta. In parte può essere vero, ma non generalizziamo. Da bambino mi piaceva suonare il pianoforte, poi a lungo andare misi da parte il tutto. Crescendo pensavo che avrei dovuto iniziare il conservatorio, passare anni lì e magari non realizzare cose concrete, a parte un diploma. Ho continuato comunque a suonare per conto mio, ma smisi di prendere lezioni. La svolta è quando ho iniziato a scrivere, ispirato anche da certe firme del giornalismo italiano. Nello specifico la vecchia guardia. Era il 2010, ma la voglia di pubblicare non c’era. Le tenevo per me, nel mio computer. Il mio primo incontro con il mondo delle pubblicazioni fu al liceo, la rivista era Zai.net. Un magazine scritto da altri liceali appassionati di musica, che veniva distribuito nelle principali scuole delle maggiori città italiane. Roma, Bologna e via dicendo. Chiunque poteva proporsi, feci proprio così, li contattai e loro risposero. Fu il via di tutto. Il passo successivo fu il conoscere l’esistenza di un ordine dei giornalisti. Decisi di seguire il percorso per arrivare al patentino. Il viaggio in un ambito professionale iniziò proprio con questa consapevolezza. Partire dalla cameretta per cercare di realizzare i sogni più grandi. Questo è un po’ il mio cammino.
Proprio su questo vorrei allacciarmi. Dal giornalismo nato in cameretta a sfide sempre nuove e stimolanti. So che sei stato più volte a Sanremo. Puoi raccontare questa esperienza? Che cosa ti sentiresti di dire ad un ragazzo che vuole intraprendere la tua stessa esperienza?
Al di là di Sanremo, ad un ragazzo di 18 o 20 anni che inizia a scrivere di musica direi questo. Fai questo lavoro, ma fallo per l’amore della notizia, non per amore della ricondivisione, del cuoricino su Instagram o Twitter, oppure dell’amicizia del cantante intervistato. Il nostro mestiere è quello di raccontare, informare e perché no, criticare, perché alla fine il nostro ruolo è quello di essere vigili su questo mondo musicale in continuo movimento. Ogni settimana esce un nuovo “fenomeno” e il nostro compito è quello di raccontare ed esprimersi su nuovi fenomeni o tendenze. Poi c’è chi si conferma e chi sparisce, Sanremo di quest’anno ha segnato il canto del cigno di alcuni talenti emergenti, travolti dall’impeto di un evento che non fa sconti a volte. Proprio restando su Sanremo, ero gasatissimo il primo anno. Un sogno, da bambino mi divertivo leggendo i giornali a dare le pagelle ai cantanti. Un bellissimo gioco. Poi il 2016, un Luna Park, faticosissimo, ma che esperienza, il sogno di un bambino che diventa realtà. Il secondo anno ancora gioia, fatica, ma tanta voglia di esserci. Il terzo anno primo accenno di monotonia, qualcosa stava cambiando. Il quarto devo ammetterlo, noia totale. L’ultimo Festival ho deciso di saltarlo, parlo di quello in piena pandemia, anche se tornando indietro, parteciperei sicuro. La prima regola di un giornalista musicale e non solo è quello di esserci. Essere dove accadono le cose per raccontarle. Questo è un altro messaggio che direi ad un giovane giornalista.
Non solo articolista, hai anche delle pubblicazioni editoriali. Tu hai scritto un libro su un’artista, nello specifico Coez. Il ricordo più bello e le difficoltà incontrate
Fu una proposta di una casa editrice. Voleva scrivere un testo sui cantautori italiani del 2000, che poi del 2000 non erano affatto, al massimo 2010. Insomma, la casa voleva raccontare dei fenomeni Coez, Levante, Calcutta, Thegiornalisti. A me toccò Coez e ora ti spiego il perché (ride n.d.r.). Il curatore della collana, l’editor della casa editrice aveva letto una mia recensione del brano “Faccio un casino” dello stesso Coez. Disse più volte che la recensione fosse accurata, valorizzandomi come esperto dell’artista. Io, ovviamente dissi la verità, non ero affatto ferrato su Coez. Alla fine cedetti, provai a contattare Silvano (Coez n.d.r.). All’epoca non era ancora un big, aveva certo fatto grandi numeri con “Faccio un casino”, ma doveva iniziare i tour, i live della consacrazione. Volevo scriverlo insieme, non volevo una biografia, ma un diario, qualcosa di diverso. Ormai tutti scrivono libri, anche ragazzi appena usciti da talent. Ero super interessato, percorrere con Coez il suo passaggio dal rap all’Indie, il suo percorso evolutivo e formativo d’artista. Scrissi una mail, ma la risposta fu negativa. Aveva già rifiutato la proposta di una casa editrice più grande, ma diede comunque l’assenso di poter scrivere su di lui. L’invito era di pubblicarlo e poi farglielo leggere a carte concluse. Finì il lavoro, ma non ero soddisfatto, anzi quasi spaventato che potesse arrabbiarsi o addirittura querelarmi. Invece il libro esce, scrivo una mail per avvisarlo della copia in regalo. Nessuna risposta per settimane, la paura sale, finché dopo qualche periodo arriva una risposta. Coez era felice e soddisfatto, secondo me era pentito di non averlo scritto con me. Un’esperienza nuova scrivere un libro, non l’avevo mai fatto. Non ho grandi considerazioni di questo lavoro, grande tenerezza e affetto sì, sono più legato ad un altro.
Mamma Roma?
Esatto, Mamma Roma: La terza scuola di cantautori della Capitale. Un lavoro più vasto su tutti i cantautori della scena romana dal 2010 in poi. Peccato non abbia avuto il giusto slancio di vendite, ma lo reputo comunque un lavoro che mi ha dato tanto.
Il tuo percorso è netto e vasto, ma sei ancora molto giovane. Vorrei chiedere il tuo sogno più grande da realizzare. Quella cosa per cui dici: “C’è ancora molto da fare, ma non mi pesa. Darei tutto fino alla fine”. Inoltre perché non condividi il tuo mentore, sia nella vita in generale, che professionale.
Parto con il mentore generale. Il regista Nanni Moretti, maestro di vita. I suoi film per me restano una fonte di ispirazione per sopravvivere nella rete sociale di tutti i giorni. Palombella rossa rimane impresso, la famosa scena dello schiaffo alla giornalista donna. Oggi non si potrebbe fare. Però divertente, riguardante il valore delle parole giuste per fare una domanda. Geniale, provocatorio, ma anche molto attuale. Il mentore professionale è una persona che purtroppo non ho mai conosciuto. Ne ho sentito solo parlare un gran bene, in molti dei miei colleghi più grandi hanno ipotizzato che in caso di conoscenza, saremmo potuti andare molto d’accordo. Sto parlando di Paolo Zaccagnini, giornalista romano, storico nella professione. Non vive da tempo a Roma, si è trasferito in Irlanda se non sbaglio. Ecco, uno dei sogni che premono di più da tempo è proprio conoscerlo. Sono incuriosito dai giudizi dei miei colleghi che ipotizzano su un nostro grande rapporto. Un sogno è conoscere Paolo Zaccagnini, lo immagino come Luke Skywolker degli ultimi Star Wars. Un guerriero stanco delle guerre e delle faide che si ritira. Ecco io Zaccagnini lo disegno come Wolker, un uomo che ha deciso di staccare dalla guerra e dalla battaglia del giornalismo. Io invece mi sento come la protagonista di questo film (Star Wars 8 del 2017), che cerca un contatto con il maestro. La figura di riferimento.
Lascio a te una frase conclusiva da buon giornalista
Posso dire che un bravo giornalista deve spogliarsi dei panni del fan e scrivere per informare. Scrivete, scrivete, ma fatelo per amore della notizia, non fatelo per diventare amici dei cantanti, per esempio. Concludo con una folgorazione, Orianna Fallaci. Non ha scritto di musica, ma una sua frase resterà per sempre in me.
“Fare il giornalista significa disobbedire, essere disobbediente. Stare all’opposizione, raccontare la verità“. E che cos’è la verità? Tutto ciò che non ci viene detto. Un messaggio gigantesco di un personaggio fantastico come Orianna Fallaci. Non c’è miglior modo per chiudere.
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