È fatta, per dirla con il Cristo di Sete, il romanzo di Amélie Nothomb, edito Voland, traduzione di Isabella Mattazzi.

Sto scrivendo il mio primo pezzo per Full Pink Jacket. Sto lanciando la mia prima pietra e voglio cominciare così, consigliandovi un libro che mi ha rapito per qualche giorno. Lettura non priva di effetti collaterali. Confesso di aver sognato, mentre prendevo appunti per Pink, la trasformazione del ficus presente nel mio giardino da mezzo secolo nel fico maledetto e poi perdonato dal Cristo di Nothomb. Assalita dalla voglia di gustare un frutto caldo di sole, succoso e zuccherino, come Dio comanda! Anche per questo ve ne parlo dell’ultimo libro di Nothomb, subito dopo averlo chiuso ho pensato è fatta, pianterò un fico.



È fatta. È un verbo performativo. Basta dirlo – nel modo giusto, nel senso assoluto del verbo – e ogni cosa è compiuta”.

E se lo dice lui, il figlio di Dio è tutta un’altra storia. Soprattutto quando Gesù è Amélie Nothomb è il Cristo che si racconta e si confida in centodue pagine al netto dei fogli di servizio. Si sente la mano della scrittrice, il suo timbro, nella cura dei dettagli che accompagna da sempre la sua scrittura. Un manifesto in tal senso si può trovare tra le prime righe di questo suo ultimo romanzo, lo stesso Gesù conferma, passatemi la forzatura senza storcere il naso prima di leggerlo: “Ho sempre saputo che sarei stato condannato a morte. Il vantaggio di questa certezza è che posso accordare la mia attenzione a ciò che lo merita: i dettagli”. La forza della narrazione Nothomb, i dettagli, appunto.

A poche righe dal incipit incontro gli sposi di Cana, mi siedo davanti a Ponzio Pilato, accanto a Gesù che amareggiato confida “i miei primi miracolati”.

Oggi sono qui in veste di testimoni d’accusa: “Quest’uomo ha il potere di trasformare l’acqua in vino – dichiara lo sposo, indicando Gesù -. Eppure ha aspettato la fine delle nozze per servirsi del suo dono… Siamo diventati lo zimbello del villaggio”. Qualche capitolo ancora e Gesù confessa di non aver mai amato i matrimoni: “Questo sacramento mi riempie d’angoscia… Io non mi sposerò e non lo rimpiango affatto”.


Non ci sono soltanto gli sposi di Cana.

Sono trentasette i miracolati, trasformati da Pilato in testimoni d’accusa, tutti a mettere in mostra senza batter ciglio “i propri panni sporchi”, avverte Gesù. Il più divertente, l’ex posseduto di Cafarnao: “Dopo l’esorcismo la mia vita è diventata una noia mortale”. Lazzaro non è da meno quando confessa quanto sia “odioso vivere con quell’insopportabile puzza di cadavere che ti si incolla sulla pelle“. Alla fine della passerella degli ex miracolati Gesù è sgomento: “La compiacenza con cui ognuno ha preso la parola contro di me – confessa – mi ha lasciato sbalordito”.



Il Cristo Nothomb è spiazzante, adorabile, dissacrante, amabile, terreno.

Adora bere, mangiare, dormire. Non ha paura della morte, ma della crocifissione come di ogni altro altro dolore fisico: “Il più lieve dei mal di denti mi procura un dolore atroce”. Ama il suo corpo, ama con passione: “Nel momento inconcepibile in cui ho scelto il mio destino, non sapevo che questo avrebbe implicato innamorarmi di Maria Maddalena… Di tutte le gioie che ho provato con lei, nessuna ha eguagliato la sua contemplazione”.

La notte prima di morire, Gesù rivela un’unica vergogna, aver maledetto un fico in uno scatto di rabbia dettato dalla gola: “Desideravo tanto mordere un fico caldo di sole, succoso e zuccherino, che ho maledetto l’albero, condannandolo a non avere mai più frutti”. Non era stagione di fichi.

Così umano nelle sue fragilità:

Mio padre mi ha inviato sulla terra per portare la fede. Fede in cosa? In lui. Anche se si è degnato di includermi all’interno del concetto con l’idea di trinità, trovo tutto allucinante”. Lucidamente consapevole. Tanto che nell’accettare di morire in croce sa di mette in discussione il precetto paterno: “ama il tuo prossimo come te stesso”. Insegnamento sublime, indubbiamente, ma: “Di cui sto professando il contrario. Accetto questa messa a morte mostruosa, umiliante, indecente, interminabile. Chi accetta una cosa simile non si ama affatto”.



Sete l’ho aperto il giorno un cui ho letto della lettera che Amélie aveva scritto al padre Patrick Nothomb, morto il 17 marzo scorso, agli inizi del lockdown. Tre fogli scritti a mano, con una calligrafia leggera e spaziosa, riprodotti da Le Figarò. Dopo aver letto il libro ho ripensato alla lettera, attirata da una strana assonanza profetica, come quando Amélie rivolta al padre spiega:

Quando scrivo che hai scelto di morire, non parlo di eutanasia, anche se questo argomento non mi sconvolge. Penso che tu soffrissi profondamente del cancro che ti stava divorando, che la morte ti si è presentata e l’hai accettata, come si accetta la liberazione“. Passaggio, quest’ultimo, che mi è stato facile sovrapporre a Cristo Nothomb quando rivela: “Questa notte non ci saranno miracoli. Non ho la minima intenzione di sottrarmi a quanto mi attende domani. Non che non lo desideri, ovviamente”.

Dettagli d’autore. D’altra parte Nothomb dichiara fin dal suo esordio: “Io scrivo molto della e sulla mia vita”.

Della sete, del suo sapore, del senso per l’acqua di Gesù che attraversa il suo corpo e i suoi pensieri, ne saprete di più leggendo il libro: “Per provare la sete, occorre essere vivi. Io ho vissuto così intensamente da morire assetato”. Prima di aprire questo libro non fatevi mancare acqua fresca e fichi zuccherini. Un frutto sacro ed afrodisiaco allo stesso tempo, di buon augurio. E’ la stagione giusta.

Amélie Nothomb
Sete
Traduzione di Isabella Mattazzi
2020, pp. 128
€ 16,00
ISBN: 97888624340270

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Immagine di copertina di Beeld Pascalito (all right reserved)