L’incipit di un romanzo dà sempre un’idea piuttosto efficace di quello che si andrà a leggere. Ci introduce nel linguaggio, nell’atmosfera, anticipa sensazioni, pone le basi dell’intreccio. “Lo schiavo di Antiochia” si apre con la descrizione di un mercato di schiavi, a poche miglia da Hydruntum (l’antica Otranto).
Desideravo (n.d.r. a parlarci è la stessa Ornella Albanese) che fin dalla prima scena i due mondi che volevo rappresentare fossero in stridente contrasto. Il mondo feroce, carnale, quasi primitivo da cui proviene lo schiavo normanno, e il mondo rarefatto nella sua estrema raffinatezza al quale appartiene la nobile bizantina Eléni Akantos.
E allora ecco subito la descrizione del mercato di schiavi. Ne avvertiamo l’odore acre, udiamo i gemiti, il sibilo delle sferzate, il rumore ferroso delle catene. Vediamo i corpi completamente nudi degli schiavi che aspettano di essere esaminati e acquistati. Eléni Akantos deve affrontare quel luogo miserevole per poter acquistare uno schiavo da combattimento, e lo fa con il suo abito di seta, i capelli riccamente acconciati e con una boccetta di essenza profumata che servirà a coprire l’odore sgradevole che ristagna nell’aria.
L’incontro tra Eléni e lo schiavo con gli occhi da belva e il collare di ferro è di quelli che non si dimenticano. E infatti lei non riesce a dimenticarlo, colpita anche dal mistero che circonda il normanno.
«Elèni guardò lo schiavo, e di nuovo incontrò i suoi occhi. Erano davvero due voragini buie. Il suo maestro di filosofia affermava che attraverso gli occhi di un uomo si può scrutare la sua anima, che le iridi sono trasparenti come vetro di Bisanzio e lasciano scorgere quello che si agita nel cuore, nell’anima e nella testa di chi osserviamo. Eppure gli occhi dello schiavo parevano due schegge di vetro ancora incandescenti, non lasciavano trapelare niente che non fosse una rabbia cieca e pericolosa.»
E proprio da quell’incontro scaturisce la complessa trama della storia. Una storia di passione, di vendetta, di perversione e sopratutto di doppiezza. Mi è piaciuto giocare con la doppiezza di quasi tutti i personaggi perché sono molto attratta dalla duplicità che è spesso parte dell’animo umano.
E per finire, uno scenario ricco di suggestioni fa da sfondo a una storia d’amore che lotta contro le avversità ma anche contro se stessa, e che nasce dal passato più buio che si possa immaginare.
So che un momento complesso ma che trovi particolarmente stimolante è quello della ricerca, specie quando si tratta di un romance storico. Che tipo di studi e fonti hai seguito per “Lo schiavo di Antiochia”?
In principio ho fatto ricerche sugli antichi mercati di schiavi, per catturarne l’atmosfera. Man mano che il romanzo procedeva, però, mi è servito anche un aggancio con la Terra Santa, e invece di limitarmi a inventare uno scontro armato, ho cercato cosa mi offriva la Storia nel periodo che avevo scelto. Non ci crederete, ma eventi e personaggi mi sono venuti incontro, plasmandosi perfettamente per aderire in modo naturale alla trama. Non ho dovuto fare forzature né trasgressioni.
Per me la Storia è adrenalina pura. Un gigantesco affresco con milioni di volti, di episodi, di tradizioni e di leggende, una miniera infinita a cui attingere. E poi nel medioevo ci sono molte zone d’ombra e persino le situazioni più accreditate possono essere capovolte in modo verosimile, perché la Storia in realtà appartiene a chi la scrive.
La più banale delle domande, ma in fondo è la prima (forse) che sorge quando si legge una storia: da dove è cominciato tutto? La scintilla per scrivere questa storia come è scattata?
Per la prima volta da quando scrivo, tutta la trama molto articolata de “Lo schiavo di Antiochia” è scaturita da una sola parola che mi frullava in testa da un po’: schiavo. Tutto il resto, personaggi, intreccio, passioni, odio, tradimenti, tutto si è assemblato intorno a quella parola creando il mio romanzo. Quindi potrei dire che la maggior parte del lavoro creativo è stato fatto da un’unica parola di sette lettere ma carica di suggestioni.
Raccontaci un dietro alle quinte della scrittrice impegnata a tessere la trama intricata de “Lo schiavo di Antiochia”.
Il dietro le quinte di un romanzo è sempre eccitante. Potrei raccontare come ho fatto a risolvere situazioni che sembravano non avere vie d’uscita (ricorrere al fuoco greco? Fare in modo che il fossato intorno al castello non fosse ancora completo altrimenti avrebbe impedito la via di fuga? Il flash che ha dato vita al famoso colpo di scena che io amo molto e che considero irrinunciabile?), però preferisco raccontarvi in che modo ho scritto Lo schiavo di Antiochia.
Ero a Gallipoli, l’estate scorsa. Io non metto mai la sveglia quando sono in vacanza, ma la mia gatta ha avuto la bellissima idea di svegliarmi ogni giorno alle cinque e mezzo e io, invece di riprendere a dormire, me ne andavo sul terrazzo e scrivevo davanti allo splendido mare azzurro e luccicante di Gallipoli. È stato bellissimo, e le parole sullo schermo acquistavano l’intensità delle mie emozioni.
Dopo due fantastiche ore al computer, ero pronta a cominciare la mia giornata.
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