Sofia Otero, protagonista di 20 000 specie di api, ha vinto l’Orso d’oro come miglior performance alla 73° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Nel 2020 la manifestazione europea ha scelto di eliminare le categorie “miglior attore” e “migliore attrice”, accogliendo la richiesta sollevata dall’ambito LGBTQI+, non distinguendo per genere gli attori.

La giovanissima attrice (Otero ha appena otto anni) si è confrontata con un ruolo che non sarebbe stato facile interpretare neanche con l’esperienza di anni. 20 000 specie di api, film in concorso ufficiale per l’Orso d’oro, narra la storia di una bambina, Aitor/Cocò/Lucia che non si sente appartenere al sesso assegnatole alla nascita. I dolci lineamenti infantili creano un’ambiguità che diventa universale, non limitandosi all’universo filmico. La trama tocca infatti una tematica urgente che riesce a svelarsi in tutta la sua potenza attraverso la semplicità della narrazione; un montaggio che silenziosamente svela più di quanto non si possa dire con le parole.

Tono leggero, tematiche urgenti

Il lungometraggio chiede allo spettatore una certa tolleranza nei tempi – parallelamente alla questione affrontata. All’età di otto anni Aitor sa già che questo nome non la descrive – né il costumino da bagno maschile blu le appartiene. Risponde dapprima solo al nome Cocò e non si sente a suo agio negli spogliatoi maschili. La lungimiranza della madre non è condivisa dal resto del paesino dove la famiglia si ritrova a passare una breve vacanza. “Non si può vestire da femmina, è un maschio!” le dicono i parenti. Cocò riesce a sviare la negatività che la circonda, restando fedele a sé stessa, finché il brusio diventa assordante, le urla dell’intolleranza non le lasciano scampo – il mondo non sembra pronto ad accettarla.

Maschile vs. Femminile

La non accettazione di sé, tra un maschile e un femminile che al difuori di Cocò sembrano non poter comunicare, si manifesta anche nel personaggio materno – torturato dalla mentalità becera del paesino piccolo-borghese che ospita la famiglia. Figlia di uno scultore di successo, anche la madre ha intrapreso la strada dell’arte, solo per rinunciare alla propria voce e trovarsi a riproporre dei lavori dimenticati del padre, non a caso, una serie chiamata “Le silfidi”.

L’immagine del corpo femminile diventa così emblematicamente raccontata da uno sguardo maschile. Sovrastata dall’eredità paterna – maschile – la madre di Cocò non si sente in grado di creare con le proprie mani, con la propria femminilità.

Specchio l’una dell’altra, i due personaggi femminili si scontreranno contro tutti pur di arrivare ad un’accettazione che è verbo, parola, nome: Lucìa, battesimo che Cocò sceglierà per autodeterminarsi.

Diretto da Estibaliz Urresola Solaguren, 20 000 specie di api ha il merito di commuovere cercando sempre un tono leggero; battute efficaci che provocano ilarità in mezzo alla tragedia che tanti sono costretti ad affrontare, spesso senza una figura materna così innamorata della propria prole. Il lungometraggio è anche il primo in lingua basca ad essere stato presentato in concorso ufficiale al Festival di Berlino. Ode a questo film, che riesca presto a rompere le barriere e arrivare sugli schermi italiani!