Palma d’Oro al Festival di Cannes, Anatomia di una caduta è un manifesto della condizione maschile contemporanea, inquadrata da un occhio femminile.
La scrittrice tedesca Sandra (Sandra Hüller) viene accusata di aver ucciso il marito nel loro chalet di montagna. La morte, causata da una caduta, è circondata di mistero. La regista francese Justine Triet potrebbe essersi ispirata alla docuserie (ora su Netflix), diventata poi anche serie fiction HBO, The Staircase, dove troviamo, oltre al paradosso della caduta, delle corrispondenze tra i protagonisti.
Sandra è bisessuale e durante il processo questo fattore verrà usato contro di lei; per screditarla. Avviene lo stesso per Michael Peterson, protagonista della serie menzionata.
Sembra quasi di vedere la controparte femminile di questa storia, portata avanti da una donna che non brilla di femminilità e a tratti non permette empatia. Ed è proprio questo il “gioco” messo in atto dalla regista.
Anatomia di un “gioco” complesso
Sandra Hüller non riesce a convincerci né della sua innocenza, né della sua colpevolezza. È di ghiaccio, fredda come il paesaggio che la circonda. Lo spettatore, dapprima stordito dalla musica a tutto volume che confonde e devia, viene poi inghiottito da flashback che mostrano delle dinamiche di coppia ingiuste e tristemente attuali. Il marito, Samuel (Samuel Theis), vive di insoddisfazioni. La colpa, naturalmente, è della donna che ha accanto e del suo successo nel lavoro. Una caduta accidentale, un omicidio, o un suicidio?
Si delinea così, rosso come il sangue che macchia la neve, un maschile vulnerabile, ferito, inerme, incapace di affrontare la vita. E questo film stupisce, sorprende e disorienta. Se proviamo antipatia nei confronti di Sandra, ciò è certamente voluto dallo scopo della narrazione. Sandra viene vista come una donna colpevole di omicidio fondamentalmente solo per questo: perché non veste i panni della madre casalinga e dipendente dall’uomo.
Il film non è stato apprezzato come si suol fare con le “Palma d’Oro” – non è un film scontato. Come la musica, un ritornello che si ripete ai limiti del sopportabile, scandendo le scene, le immagini ci ritornano, un po’ alla volta dopo la visione. E non siamo convinti del tutto, ci restano tanti dubbi ma forse è proprio questa la forza del film. Siamo ancora in quello chalet, immersi in riflessioni scomode.
There are 2 comments on this post
Comments are closed.