Gli affreschi della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria
e il racconto pittorico della Regina Marina d’Enghien
Nel cuore del Salento, terra del Barocco ricamato nel tenero calcare locale, è possibile ammirare uno straordinario esempio di arte romanico-gotica, la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, a poche decine di chilometri da Lecce. Mirabile sintesi di arte e di spiritualità, con oltre sei secoli di storia, è la seconda chiesa in Italia, dopo la Chiesa di San Francesco ad Assisi per l’estensione di affreschi quattrocenteschi al suo interno, attribuibili a maestranze di scuola giottesca. Un monumento che celebra le famiglie del Balzo Orsini e d’Enghien che si sono prodigate nella realizzazione di questo gioiello d’arte nelal Terra d’Otranto.
Le vicende del complesso cateriniano hanno inizio sul finire del XIV secolo, da un viaggio in Terrasanta di Raimondello Orsini del Balzo, un cavaliere di nobile famiglia recatosi in Oriente per combattere contro gli infedeli in difesa del Santo Sepolcro. Significativo per l’eroico combattente fu la visita al Santuario del Monte Sinai, dove si racconta che egli rimase a contemplare le sacre spoglie di Santa Caterina d’Alessandria e, prima di partire, nel baciarle la mano, ne staccò, con i denti, un dito con anello che portò via con sé (oggi custodito nel Museo della Basilica). Forse un’immagine che ci fa arricciare un po’ il naso, ma una volta tornato in Salento, Raimondello volle erigere, in San Pietro in Galatina (come era chiamata un tempo questa località), una basilica, un convento e un ospedale in onore della santa di Alessandra, a testimonianza della sua profondità devozione.
La morte improvvisa di Raimondello nel 1406, durante l’assedio di Taranto Del re Ladislao Durazzo, non segnò fortunatamente la fine del percorso artistico-religioso del complesso di Santa Caterina, poiché la moglie e i figli lo continuarono con lo stesso spirito di intensa liberalità. In particolare, Maria d’Enghien – donna fiera e ambiziosa –, che l’anno successivo sposò Ladislao di Durazzo, divenendo regina di Napoli, una volta rimasta vedova una seconda volta nel 1414 e affrancatasi dalle persecuzione della cognata Giovanna, poté dedicarsi al governo della contea di Lecce e dei beni cateriniani, proseguendo l’opera di Raimondello.
Se la facciata è stata realizzata nell’osservanza dei canoni dell’arte tardo-romanica, sia nell’impostazione, con il protiro centrale e il coronamento tricuspidale contrassegnato da archetti pensili, sia nell’ornamentazione, specie in quella a intaglio finissimo del rosone e del portale principali, l’interno ripropone le linee ogivali della Basilica Superiore di Assisi, in conformità al gusto gotico-francescano.
E se alla volontà di Raimondello si devo la costruzione del tempio, tra il 1383 e il 1391, come inciso in numeri romani sull’ingresso laterale di sinistra, è invece alla generosa iniziativa della regina Maria che vengono attribuiti i meravigliosi affreschi che della Basilica rivestono le volte e gli archi, le colonne e le pareti. Più maestranze, di diversa estrazione, vi hanno lavorato, secondo un preciso programma iconografico quasi certamente dettato dai frati francescani, d’intesa con la committente.
Le immagini, destinate ad attirare l’attenzione del federe sui temi fondamentali del sacro, scorrono, lungo la navata centrale, dalla controfacciata alle pareti e alle volte, per raccontare in sequenza – nelle campate della navata centrale – le storie dell’Apocalisse, al Genesi, la Chiesa e i Sacramenti, la vita di Cristo, sotto i cori angelici e le storie di Santa Caterina, sotto i ritratti degli Evangelisti e dei Dottori della Chiesa. La storia della vita di Maria e dell’infanzia di Gesù sono narrate dagli affreschi della navata destra, mentre tanti altri pannelli votivi si distendono qua e là, all’interno della basilica, lungo gli ambulacri, a testimonianza della fede e delle richieste di grazia. Uno di questi, presente nell’ambulacro destro, raffigurante Sant’Antonio Abate, reca, in basso, l’unica data certa, quel 1432 apposto dal suo autore, tal “Franciscus de Arecio”, unica mano che è stata così identificare tra le molte che avranno operato in questa mirabile opera pittorica.
La sobrietà degli esterni non prepara allo spettacolo della narrazione pittorica dell’interno. Il visitatore fatto ingresso nella chiesa rimane senza fiato e, invaso dalla meraviglia, non riesce a distogliere lo sguardo dalle immagini dipinte. Nella maestà dei colori, talora impreziositi dall’impiego di materiali nobili, come l’oro e l’argento, gli affreschi della basilica, considerati nel loro insieme il più vasto patrimonio figurativo del primo Quattrocento meridionale, consegnano uno spettacolo incantevole di vivida rappresentazione pittorica della fede cristiana.
Nella definizione del programma iconografico, oltre agli aspetti teologici, sembra però si possa leggere un altro “racconto”, quello di Maria d’Enghien che narra le proprie traversìe e celebra se stessa e la sua famiglia: nei Re Magi, da cui gli Orsini del Balzo si vantavo di discendere, pare quasi riconoscere l’anziano Raimondello, il giovane primogenito Giovanni Antonio, mentre le lunghe chiome bionde e le fattezze delicate del terzo personaggio coronato si confanno di più a una figura femminile come quella di Maria. Così come nel leone che sembra ruggire mentre si aggira sulle rovine di Babilonia, alcuni critici hanno identificato la città di Napoli che tanti dispiacere diede alla regina Maria durante il suo soggiorno partenopeo, in seguito alle seconde nozze con il re Ladislao: nella raffigurazione della Meretrice qualcuno infatti ha visto la grande nemica di Maria, Giovanna II, che regna su Napoli, usurpandole il trono che le spettava come sovrana consorte alla morte di Ladislao; e pare che sia sempre la stesa Giovanna, quella testa di donna con la quale viene antropomorfizzata la figura del serpente che tentò Adamo ed Eva nell’Eden.
Maria non guardava la Basilica secondo la prospettiva del semplice fedele, ma in un’ottica tutta politica: ella identificava se stessa con Santa Caterina, ritratta con caratteristiche somatiche e perfino con abiti molto simili a quelli indossati da colei che viene considerata dai critici la raffigurazione di Maria stessa, nel “Sacramento del Matrimonio”, ma anche Santa che siede in trono tra gli angeli e reca sul capo una corona gigliata, santa che tiene testa con la sua intelligenza e forza di carattere ai sapienti e all’imperatore, santa che infine non esita a sacrificare la propria vita pur di non venir meno alle proprie convinzioni (in modo analogo risponde Maria a chi le dice che Ladislao, dopo averla sposata, la farà uccidere: «Non me ne curo, morirò regina»). Ed ecco che lei, la regina, sceglie nell’alleanza con la Chiesa, suggellata anche dal matrimonio del figlio Giovanni Antonio con Anna Colonna, nipote del Papa Martino V, lo strumento attraverso il quale trionfare sulla “Bestia” apocalittica (Napoli) e sulla “Meretrice” (Giovanna II).
«Io trionferò»: questo è il monito che Maria lancia, dal “suo” (di Santa Caterina, in realtà) trono sul presbiterio, sulla controfacciata della Basilica a chi si avvia a uscire dal tempio.
Sara Foti Sciavaliere
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