“E ti dico un’altra cosa: gira, vota e firria il mondo pare che cambia, ma i cristiani sono sempre gli stessi”.

Quanta saggezza nelle parole di Amalia Cuffaro, balia della nobile Costanza Safamita.

Attraverso i suoi racconti alla nipotina Pinuzza di cui si prende cura, che a volte paiono dare il cambio all’onniscienza dell’autrice per la descrizione di dettagli che lei non avrebbe potuto conoscere, si snodano le vicende di Costanza e della sua famiglia.

Diviso in due parti, infanzia prima e giovinezza di Costanza poi, La zia marchesa si presenta non solo come il ritratto di un’aristocrazia in disfacimento, ma soprattutto come il ritratto della resilienza di una donna che sin dalla tenera età subisce gli eventi e l’autorità paterna con fare apparentemente passivo: l’intensità della sua pietas e la risoluta pacatezza con cui affronta, uscendone vittoriosa, le difficoltà che le si pongono davanti non sfuggono al lettore che quasi se ne rammarica quando alcuni personaggi non gliela riconoscono perché preferiscono far fede a ciò che la gente dice piuttosto che al loro cuore. 

Costanza nasce coi capelli rossi a Sarentini, in quella Sicilia di provincia carica di maldicenze e pregiudizi. Subito viene affidata ad Amalia, la giovanissima balia, onesta e rispettabile neo mamma, di estrazione popolare, che se ne occupa come se fosse figlia sua quasi a volerla sostituire al suo Giovannino che le è stato bruscamente tolto dalla suocera per mandarla a guadagnare alle dipendenze dei baroni Safamita. Il suo amore per Costanza è così forte che teme la gelosia di Caterina Safamita, la padrona, che pur avendo avuto già Stefano, rifiuta la secondogenita dicendo “non la voglio una fimmina, maschio doveva essere, no, no, no…”. Poche parole che racchiudono tutto l’autoritarismo di un mondo patriarcale, il sentire comune della società dell’epoca, e che celano ben altro: un profondo dolore che verrà svelato solo nel corso della narrazione. A nulla servono le parole del baronello Domenico, l’autoritario marito, che le dice “questa figlia che tu facesti mia è, capisci? Figlia mia è. Io le voglio bene e tu devi volerle bene pure”, Caterina continuerà a rifiutarla.

Intorno a Costanza ruotano altre figure femminili di straordinaria potenza: sono le donne di servizio della stireria dove il padre, dato l’atteggiamento a tratti violento della madre nei confronti della piccola, aveva deciso di farle trascorrere una parte della giornata dopo la nascita del fratello Giacomo. Saranno queste donne a insegnarle molte cose e ad alleviarle il dolore per il mancato affetto della madre con pettegolezzi e racconti tanto enigmatici quanto educativi come quello della principessa Babbaluci.

Alla coralità femminile si allaccia quella maschile in un gustoso andirivieni di piani narrativi, talvolta favolosi altre volte storici, che colorano e completano il ritratto di quella vivida umanità che resta ancorata alle ineluttabili emozioni primordiali seppur lavorando verso una svolta sociale. Niente è lasciato al caso: alcune microstorie sono così sapide che è possibile estrapolarle e lasciarle vivere da sole per costruirci un discorso a parte (è il caso dell’uccisione di una donna con simpatie risorgimentali). L’uso sapiente del dialetto italianizzato, la gustosa presenza dei proverbi in siciliano, l’incedere adagio della narrazione dato dal fraseggio che alterna periodi lunghi a periodi brevi, tutto contribuisce a far calare il lettore in quel lento mondo antico che si avvia al cambiamento, ignaro della frenesia che lo attende.

Sullo sfondo, la Sicilia all’indomani dell’Unificazione d’Italia, con le sue contraddizioni politiche e le sue trasformazioni sociali, e un messaggio universale da lasciare. Quando infatti Costanza, ormai adulta e maritata, chiede al padre come mai la madre non le voleva bene e come doveva fare con il senso del dovere che le era stato inculcato sin da bambina, il padre le risponde che la vuole felice e che per esserlo deve amarsi, deve amare e rispettare se stessa perché soltanto così gli altri la ameranno. Riguardo al dovere aggiunge “Ah, quello, quello… È un dilemma. Una scelta. Ognuno lo risolve come può. Io da giovane feci quello che volevo e quando fui richiamato ai doveri verso la famiglia, la discendenza, decisi che ‘volevo’ il mio dovere. E così è stato. Non è sempre facile, ma si può fare, e si vive meglio.” E quando Costanza gli dice che obbedirà, lui risponde: “No, Costanza, non devi, desidero che tu faccia quello che vuoi. La contentezza bisogna cercarla, costruirla pietra su pietra, con quelle pietre che si trovano, come se fosse una casa.”

Con uguale intensità ma a viso aperto anche Violet de La ricamatrice di Winchester cerca la propria felicità sfidando gli stereotipi sociali del suo paese per affermare la sua indipendenza.

Siamo nell’Inghilterra degli anni ’30 del Novecento: Violet è una donna non sposata in una società che, per questo motivo, la considera in eccedenza. Vive con una madre oppressiva e piagnucolona che non si è mai riavuta dalla perdita del primogenito in guerra. Stanca di tutto questo, decide di lasciare il suo paesino di origine e di andare a lavorare a Winchester dove si ritrova spesso a sgattaiolare nella famosa cattedrale. “[…] il pensiero delle migliaia di persone che vi si erano recate nel corso dei secoli per meditare sulle grandi questioni della vita e della morte, lasciando fuori le cure della vita”, la emozionava tanto. “Solo lì si sentiva davvero edificata”. 

Ed è lì, di fatti, che comincia a snodarsi il canovaccio della sua vicenda: proprio tra quelle maestosa mura conosciamo questa trentottenne inglese che lavora come dattilografa per una compagnia di assicurazioni. Durante una delle sue visite alla cattedrale, per caso si ritrova ad assistere alla cerimonia di Presentazione dei cuscini della rinomata istituzione associativa delle ricamatrici della cattedrale.

Affascinata dall’idea di poter imparare l’arte del ricamo al fine di lasciare anche lei un piccolo segno del suo passaggio ai posteri in un edificio secolare, Violet, per una serie di coincidenze, riesce a entrare a far parte dell’associazione. Qui incontra “una donna bassina, sui sessant’anni, con gli occhiali e un morbido doppio mento, i capelli canuti raccolti in uno chignon. La bocca larga […] atteggiata a un sorrisetto bonario e rassicurante”. È Louisa Pesel, la direttrice del gruppo, importante ricamatrice del tempo la cui reale esistenza ho avuto piacere di scoprire data la passione al ricamo che mi accomuna alla protagonista. Scopo dell’associazione è ricamare più di cento cuscini per adornare la cattedrale e quattro sacchi per la questua. Sono tutt’ora lì, imperituri, con i lori disegni ispirati dalla cattedrale, dalla storia e\o altri oggetti di uso comune. Ispirazioni che però possono causare anche fraintendimenti in chi li guarda. È il caso delle svastiche, intervallate da fiori, ricamate dalla stessa Violet su un importante cuscino. Il suo Arthur, il galante campanaro di cui si innamora, rimane turbato da quella scelta della signora Pesel poiché riconosce la croce uncinata solo come il simbolo del Partito nazionalsocialista tedesco. Alla richiesta di spiegazioni, la signorina Pesel risponde che non sono svastiche bensì tetraskelion, un simbolo antico adoperato da sempre in molte religioni prima che i nazisti se ne appropriassero. È presente anche nella cattedrale, precisamente nella cappella votiva del vescovo Edington la cui scultura porta una stola “ornata da una serie di svastiche”, che tornano “anche sul colletto e sull’orlo della tonaca”, intervallate da fiori a quattro petali proprio come il cuscino.

Accanto al ricamo compare anche un altro tipo di arte, quella dei campanari, sorprendente chicca di questo romanzo che l’autrice ha sapientemente inserito tra le pagine. Interessanti e piacevoli sono le descrizioni delle sonate, così ben fatte che quasi viene voglia di andarsele ad ascoltare per entrare ancora di più nella storia. Ciò che però resta più impresso è la solidarietà femminile, la capacità delle donne di vincere le proprie reticenze e tendere la mano nonostante l’opposizione della società. Violet, infatti, diventa amica di due stravaganti ricamatrici: Gilda Hill e Dorothy, due donne innamorate, che grazie al suo aiuto riescono a vivere il loro amore sotto lo stesso tetto, sprezzanti del giudizio degli altri. Inoltre, Violet stessa diventa anticonvenzionale scegliendo di vivere l’amore che prova per Arthur, più grande di lei e soprattutto sposato, ma anche di prendere decisioni sul lavoro che spetterebbero al capo.

Insomma Violet e Costanza, secondo me, sono un valido esempio di donna tenace che nel loro tempo hanno saputo ritagliarsi il loro spicchio di felicità ribellandosi “dolcemente” alle convenzioni sociali.

“Abbiamo tutti bisogno di qualcosa che ci liberi da noi stessi. Battere a macchina mi fa quell’effetto. E anche il ricamo. E il ricamo dà più soddisfazione, perché alla fine hai creato qualcosa di bello”.

Giuseppina Stanzione