Intervista a Salvatore Asaro, curatore del progetto di rilancio della scrittrice Maria Messina per le Edizioni Croce.
Come hai incontrato Maria Messina?
Il mio incontro con la scrittrice palermitana è piuttosto bizzarro. Cinque anni fa la redattrice di una casa editrice mi chiese di fare una ricerca su alcuni racconti – italiani e stranieri – che avevano per tema la migrazione, in prospettiva di una raccolta. Mi misi a fare una ricerca capillare, cominciai a spulciare i cataloghi delle biblioteche e portai alla luce fragilissimi libercoli che consultai con interesse e attenzione. Una mattina, per caso, mi imbattei in una recensione che rimandava a un’altra recensione che rimandava a sua volta a uno scritto di Leonardo Sciascia. Un gioco di scatole cinesi abbastanza aggrovigliato e polveroso che mi ha condotto fino a Maria Messina e alla sua singolare novella “La Mèrica”. Una scrittrice che non avevo mai sentito nominare ma che mi attrasse con forza magnetica che non potrei spiegare in alcun modo senza svilirne la misteriosa intensità. Di lì a breve scoprii che negli anni ’80 lo scrittore di Racalmuto era venuto a conoscenza della produzione narrativa di Maria Messina nel medesimo modo – solo che gli anni del ripescaggio messiniano ebbero vita effimera: morto Sciascia i libri della scrittrice palermitana caddero in un secondo oblio. La coincidenza – due uomini, tutti e due siciliani, che scoprono “la Mèrica” – mi ha suggestionato al punto da continuare la mia ricerca sulla scrittrice e quindi di non fermarmi a una semplice raccolta collettanea (per inciso, la redattrice non volle più inserire “La Mèrica” nell’antologia). La cercai all’interno delle università italiane, ma non trovai informazioni sufficienti, non quelle che cercavo almeno – le risposte delle docenti sono sempre state molto vaghe. Quindi ho recuperato i pochi libri riediti in Italia grazie al genio di Leonardo Sciascia, ho approfondito la conoscenza della scrittrice grazie alla lungimiranza di Giovanni Garra Agosta che, sempre negli anni ’80, aveva recuperato e pubblicato le lettere della scrittrice a Giovanni Verga in cui è possibile scoprire aspetti inediti e interessantissimi sulla donna.
Puoi raccontarci qualcosa di lei che ce la faccia conoscere meglio e imparare ad amare?
Inspiegabilmente dimenticata, Maria Messina è probabilmente una delle scrittrici del primo ’900 italiano più interessanti; ha una produzione letteraria sconfinata oltre che variegata: ha pubblicato una quantità vastissima di novelle, diversi romanzi e tante raccolte di racconti per bambini, riscuotendo un tale successo di critica e di pubblico, da costringere la nipote – Annie Messina – ad adottare un nome decisamente più esotico (Gamîla Ghâli) quando, più tardi, decise di intraprendere la stessa carriera della zia. Maria Messina esordisce nel 1909, con la raccolta Pettini-fini, dedicata al fratello Salvatore che l’aveva esortata allo studio delle lettere (A te, mio buon fratello – che mi sei stato affettuoso e generoso maestro – offro con gratitudine queste pagine che ti appartengono). Il fratello intuisce prima di chiunque altro il valore delle novelle della sorella e si impegna attivamente affinché possano essere lette e recensite in tutta Italia. Ne invia una copia a Giovanni Verga, che ne aveva ispirato lo stile e i contenuti. Lo scrittore etneo, sempre restio nei confronti degli esordienti, comprende immediatamente la potenza di quella raccolta e avvia un fittissimo scambio epistolare con la sua giovane “allieva”, la sprona a più riprese a continuare con l’arte della scrittura e la segnala ai suoi amici editori, affinché possano esaminare il materiale, e alle più prestigiose riviste letterarie dell’epoca, in particolare a «Nuova Antologia». L’invito di Verga è talmente sincero e partecipativo che Maria Messina decide di dedicare proprio a lui la sua seconda raccolta di novelle, Piccoli gorghi. È lei stessa a parlare dell’accoglienza che i critici dell’epoca le avevano riservato e dello stile che aveva deciso di adottare, sul numero di dicembre del 1919 de «Italia che scrive»:
«Pettini-fini e Piccoli gorghi sono gli inseparabili compagni del mio primo passo; mi fa piacere ricordare, dopo tanti anni, queste novelle rapide e secche, pensate laggiù a Mistretta. Pagine concise e senza aggettivi: come la parola di chi vive profondamente una sua vita interiore, come la mia prima giovinezza che si temprava in solitudine. La critica accolse Pettini-fini e, poi, Piccoli gorghi con espressioni così lusinghiere da far girare la testa ad una esordiente. La buona accoglienza non fu, per me, se non motivo di sgomento: la mia anima solitaria tremò e si chiese più volte: saprò io mantenere le mie promesse?».
Maria Messina ha scritto, a mio avviso, alcune delle pagine più belle della nostra letteratura; i suoi personaggi, in particolar modo le figure femminili, hanno una forza paragonabile forse solo a quelli della letteratura vittoriana o del grande romanzo russo. La costruzione dei personaggi di Marcello e Simonetta de Alla deriva non ha eguali nella narrativa italiana moderna, nemmeno se prendiamo in esame testi e autori a noi più vicini; la potenza di Orsola de Primavera senza sole si può ritrovare soltanto in personaggi come Molly Gibson di Elizabeth Gaskell o Nasten’ka di Fëdor Dostoevskij, così come la modernità di Paola Mazzei de Le pause della vita, un personaggio attuale e descritto con una crudezza quasi spietata. L’autrice ha una capacità narrativa formidabile, elemento che la rende immediatamente riconoscibile; possiede uno stile asciutto, tagliente, un fraseggio quasi tolstojano, con periodi rapidi e ad effetto; riesce inoltre a condensare particolari fondamentali in porzioni circoscritte di testo, celando nel non-detto i punti nevralgici delle sue storie. Leggere Maria Messina significa immergersi totalmente nelle sue storie, alcune brevissime – alla maniera di Čechov – e imparare a dialogare con i suoi personaggi, in particolare con le molte donne che popolano le sue storie. È stata definita un’“attardata”, nel senso di epigona, perché aveva deciso di aderire alla corrente del Verismo, quando questo, effettivamente, era agli sgoccioli; lo stesso Borgese, nel 1928, l’aveva definita una «scolara di Verga». In realtà è un punto su cui bisognerà ritornare, infatti non sono molto d’accordo sulla definizione che la vuole una verista tout court. Amare Maria Messina è naturale, come naturale è stata la scrittura per lei.
Si tratta di una scrittrice che è rimasta pressoché sconosciuta fino a oggi, mai entrata nei libri di scuola per intenderci…
Questa è una nota dolente. Quando ho iniziato a occuparmi più concretamente del suo recupero, ho portato all’attenzione delle studiose la grande assenza della scrittrice palermitana dai programmi universitari, dai convegni, dai laboratori che si occupano di autrici donne, ma non ho ottenuto i risultati che speravo. Ripubblicare Maria Messina non è stato semplice. Curiosamente la produzione della scrittrice è sempre stata promossa da uomini: prima dal fratello, da Giovanni Verga, da Alessio Di Giovanni e da G.A. Borgese, che hanno agevolato la diffusione dei libri in tutta Italia; poi negli anni ’80 è stato il turno di Leonardo Sciascia e di Garra Agosta e ora sono io a raccogliere il testimone… In questi ultimi anni, fra gli altri, Salvatore Ferlita, Luca Ricci – così come anche Simona Lo Iacono – hanno portato all’attenzione degli studiosi l’assenza quasi paradossale di Maria Messina dal panorama culturale, pubblicando articoli sui maggiori quotidiani nazionali. In questi mesi mi sono occupato in maniera specifica di Primavera senza sole; a tal proposito ho consultato diversi manuali di letteratura, scoprendo che nella quasi totalità, anche in quelli redatti da studiose donne, anzi soprattutto nei loro, l’autrice non è neppure mai menzionata. A uno stupore iniziale è subentrato, lentamente, un sentimento di rabbia. Mi sono chiesto il perché. Eppure nel 1935 Alfredo Galletti – un altro uomo – scriveva nel suo manuale di letteratura italiana: «La produzione romanzesca femminile poi è oggi in Italia di una esuberanza incredibile e veramente strabocchevole […]. Lettori e critici tuttavia sembrano accordarsi nel lodare nella folla dei romanzi muliebri certi lavori di Maria Messina». E pensare che a quell’altezza cronologica la scrittrice si era allontanata dalla scena pubblica già da diverso tempo a causa di una tremenda malattia. Fortunatamente nella difficile operazione di recupero, mi sono potuto avvalere della collaborazione di diverse intellettuali e studiose: innanzitutto Elena Stancanelli, un’acuta scrittrice e giornalista, che ha contribuito alla prefazione de Alla deriva; ma poi c’è stata Barbara Dotti, scrittrice e traduttrice, che mi ha affiancato durante il mio complesso lavoro di ricerca di archivio; Flavia Rossi, che ha introdotto e curato con rigore scientifico Le pause della vita, cogliendo l’aspetto migliore non solo del singolo titolo ma dell’intera produzione messiniana, anche sotto un profilo strettamente biografico; Mara Barbuni che ha letto e accolto con vivo entusiasmo una novella della Messina, decidendo di inserirla all’interno di un’antologia da lei curata e Cristina Pausini, docente di Lingua e letteratura italiana a Tufts (Boston).
A lei è stato intitolato un premio letterario?
Sì, da diversi anni è stato dedicato un premio letterario a Maria Messina, a Mistretta, cittadina che ospitò la scrittrice negli anni dell’adolescenza. Di recente, su mio consiglio, due miei amici hanno dato vita a una pagina Facebook, “Leggere Maria Messina”, con lo scopo di sensibilizzare i lettori che oggi dedicano sempre più tempo ai social.
Sei stato chiamato a curare il progetto di rilancio di Maria Messina per le Edizioni Croce, con quali obiettivi?
Mi ci sono voluti anni prima di riuscire a riportare in libreria Maria Messina e, nonostante il rischio dell’operazione, la casa editrice Croce ha deciso comunque di impegnarsi nel progetto. Il mio obiettivo è essenzialmente quello di far riscoprire al pubblico questa scrittrice straordinaria. E anche sensibilizzare il mondo accademico affinché faccia rientrare la scrittrice nei programmi universitari e quindi renderla oggetto di studio e di dibattito.
Quali opere avete deciso di riportare alla luce e perché?
Il progetto è vasto. Ci sono diversi titoli in cantiere. È già uscito Alla deriva con la bella prefazione di Elena Stancanelli, la quale, come ho detto, si sta impegnando affinché questa grande scrittrice possa riemergere. Tra qualche settimana uscirà Le pause della vita a cura di Flavia Rossi e tra un paio di mesi Primavera senza sole. Il calendario non si chiude qua, ma la casa editrice non dà mai anticipazioni che superano i tre mesi.
Quale opera di Maria Messina consiglieresti di leggere a chi volesse accostarsi a questa autrice per la prima volta?
Tutte, è banale?
Che cosa intendeva secondo te Sciascia quando la definì la Katherine Mansfield italiana? Fu una provocazione per attirare l’interesse della critica o è un paragone calzante? Se sì, su quali basi?
Maria Messina e Katherine Mansfield sono coetanee e condividono la stessa biografia disgraziata. Chi conosce la vita della Mansfield non può non accostarla a quella di Maria Messina. Entrambe le donne hanno attinto a piene mani dalla fontana della vita e hanno regalato al mondo pagine meravigliose, piene di dolore – perché la vita fa male. Dubito che Maria Messina abbia avuto modo di leggere i racconti della scrittrice neozelandese; credo che Sciascia si riferisse piuttosto allo stile narrativo adottato da entrambe le donne. Lo stile mansfieldiano non si discosta affatto da quello della scrittrice palermitana; l’indescrivibile poesia dei loro scritti è contraddistinta da un’aspra ironia. Un altro dato le accomuna e forse le ha indirettamente influenzate: la passione per la letteratura russa. Čechov condizionò e plasmò il modo di scrivere di entrambe, non solo per quanto riguarda la tecnica del racconto breve e brevissimo, ma anche per i temi trattati. L’intera produzione messiniana è infatti intrisa di letteratura russa, esattamente come quella della neozelandese. Il parallelismo sciasciano non è dunque azzardato. Ma al contrario degli inglesi con la Mansfield, gli italiani hanno riservato alla Messina un destino decisamente più crudele.
Alcune situazioni mi fanno pensare al primo Pirandello: è un po’ azzardato questo riferimento?
La letteratura siciliana che in quegli anni, bisogna specificarlo, era la letteratura nazionale, è tangenziale a se stessa. Come la Mansfield, anche Luigi Pirandello era coetaneo di Maria Messina e dunque le letture, i modelli cui ispirarsi erano gli stessi: la grande stagione del romanzo russo, l’ironia disarmante di Colette, lo sperimentalismo narrativo di Virginia Woolf e l’ombra immensa del padre della letteratura moderna: Giovanni Verga. Luigi Pirandello, specie all’interno delle novelle, «analizza la piccola e infima borghesia siciliana e, dentro l’angustia e lo spento grigiore di una tal classe, la soffocata e angosciante condizione della donna». In pratica quello che fa pure Maria Messina, ma lei lo fa da donna. Nelle sue storie i personaggi maschili non parlano, sono quasi sempre parlati. E trovo grandioso tutto ciò, non ci sono casi analoghi in Italia, non prima di lei almeno. La sua letteratura è inedita, e sono sicuro che se non fosse stata stroncata dalla malattia nel pieno della sua attività letteraria, avrebbe dato vita a qualcosa di grandioso in Italia, qualcosa non troppo diverso da quello che hanno fatto Virginia Woolf in Inghilterra o Gertrude Stein in America.
Credi in un’affinità metatemporale che ci fa eleggere certi scrittori a nostri autori preferiti?
La letteratura è uno strano luogo. Sicuramente c’è qualcosa di metatemporale che ci porta ad amare certi autori a noi lontani, nel tempo e nello spazio. La letteratura è universale e parla agli uomini di ieri, di oggi e di domani. Può sembrare una frase scontata, ma non lo è.
Le Edizioni Croce hanno in programma l’uscita di un altro romanzo di Maria Messina, Le pause della vita: potresti introdurcelo?
Le pause della vita è un romanzo “anomalo” all’interno della produzione messiniana. Come soltanto in poche altre occasioni, l’ambientazione non è la Sicilia ma la Toscana e soprattutto non si parla della vita degli umili e della condizione dei contadini; si tratta di una storia quasi borghese. Uscito per i tipi della Treves nel 1926, ruota attorno alla figura di Paola Mazzei. Abbandonata dal padre, la giovane spende le sue giornate a San Gersolè, un piccolo paese toscano, con lo zio e la madre. Ottenuto temporaneamente un impiego alle poste, Paola non riesce a intrecciare nessun rapporto con le altre donne dell’ufficio. Si rifugia nei libri e inizia a tradurne uno. Nel frangente, si avvicina sempre più a un vecchio compagno di scuola, uno squattrinato che da lì a breve è costretto a lasciare il paese. Il dolore della solitudine, che nemmeno la traduzione riesce a lenire, spinge Paola a prendere delle decisioni infelici che comprometteranno inevitabilmente il suo futuro. Il romanzo, curato da Flavia Rossi, vanta anche un’introduzione in cui vengono analizzati tutti i meccanismi che muovono la macchina narrativa di Maria Messina. Come ci dice la Rossi all’interno della sua introduzione «“Tutto avviene bruscamente nella vita: il male e il bene. Ma il bene giunge troppo tardi, quando non siamo pronti a riceverlo”. È questa la cupa morale attorno a cui ruota Le pause della vita».
Maria Messina non è famosissima ma di lei hanno detto che dopo averla letta non è possibile dimenticarla e anzi sorge spontaneo il desiderio di leggere ancora e altro su di lei.
Maria Messina non è famosa in Italia, ma nel resto del mondo è tradotta, venduta e anche studiata all’interno delle università. Da quando ho iniziato a occuparmi in maniera più organica della scrittrice, ricevo numerose mail di studiosi e studenti da tutto il mondo, perfino dall’Australia, in cui mi chiedono informazioni; la domanda più frequente è: «Perché in Italia nessuno conosce Maria Messina?». È un quesito che mi lascia interdetto e mi imbarazza non poco. Una volta letto qualcosa di suo, anche solo una brevissima novella, non si può più smettere. È proprio così. In Alla deriva si avverte l’ironia tagliente, come è stato notato altrove, di Chéri di Colette, in Un fiore che non fiorì si legge la modernità di alcuni scritti della Ortese (che deve averla sicuramente letta e perfino suggestionata), in Primavera senza sole l’amarezza disadorna della condizione femminile rimanda inevitabilmente ad alcune delle migliori pagine di Virginia Woolf. Maria Messina è unica, e forse è proprio per questo che è stata volutamente dimenticata.
Grazie per questa interessante e affascinante presentazione e per il tuo lavoro. Non si può non raccogliere l’appassionato invito ad approfondire la conoscenza di Maria Messina da cui spero i nostri lettori si lascino conquistare.
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L'ha ribloggato su I piaceri della lettura.
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