Se la parola fast fashion vi fa venire in mente la parola fast food, allora ci siamo, il concetto è quello: distribuzione di un prodotto di massa in tempi veloci, a basso costo e con servizio ridotto al minimo.

Tutti almeno una volta nella vita abbiamo mangiato in un fast food. E comprato fast fashion.

Se dico, per esempio, Zara (e tutto il gruppo Inditex di Amancio Ortega composto da Stradivarius, Pull&Bear, Bershka, Oysho, etc…), H&M, Mango, Primark, Top Shop, Forever21? Ok, ora sappiamo di cosa parliamo

Cosa caratterizza questi brand? Prezzi accessibili, vasto assortimento, nuove collezioni che arrivano nei negozi ogni due settimane, somiglianza agli stili presentati dai designers alle passerelle della moda, privilegio della vendita on-line.

E fin qui, ci saltano agli occhi quelli che sono gli aspetti positivi di questo fenomeno.

Ma cosa rende questa fashion così fast, così veloce?

I tempi

In genere, il processo che va dal design della collezione, all’arrivo della collezione nei negozi, impiega circa due settimane. Ciò permette al brand di lanciare dalle dodici fino anche ventiquattro (sì, 24!) collezioni l’anno (Il «Guardian» documenta che Zara arriva a lanciare 12’000 pezzi ogni anno https://www.theguardian.com/business/2012/aug/17/zara-inditex-profits).

La collezione arriva nei negozi, mentre il brand ne sta già preparando una nuova da lanciare tra altri quindici giorni, quindi il ciclo di ricambio tra collezione e collezione è giusto di due settimane, creando nell’acquirente (noi) l’urgenza di comprare un pezzo “novità” ora e subito, prima che questo venga sostituito da quello ancora più nuovo (con la conseguenza di fare passare di moda la collezione precedente, che automaticamente diventa vecchia).

Il design

Anche il dipartimento creativo, che è il cuore e l’anima una grande maison di moda (è famosa la storia di Gianni Versace, che durante un’intervista, venendo a sapere che la giornalista si sarebbe sposata a breve, preso dall’estro, si mise a disegnare un abito da sposa per lei sul momento e a cucirlo il giorno dopo!), nei brand fast fashion pare sia ridotto al minimo, perché più che la capacità di creare moda, è richiesta quella di imitare la moda.

Designer tra i più famosi hanno citato per plagio diversi brand fast fashion perché, a pochi giorni di distanza dalla presentazione delle loro collezioni alle fashion week, nelle vetrine dei negozi fast sono spuntati cloni degli abiti che avevano sfilato in passerella (Zara e Forever21 tra i più coinvolti, come racconta il «Business Insider» https://www.businessinsider.com/zara-forever-21-fast-fashion-full-of-copycats-2018-3?IR=T). Tagliare sul costo di un dipartimento creativo (che in genere impiega mesi e pensare e disegnare una collezione), è uno dei modi che permette al brand di tenere basso il prezzo dei pezzi.

Le quantità

I brand fast fashion producono enormi quantità di ogni pezzo, perché se questo vende bene, non c’è bisogno di farlo produrre ancora (anche perché non c’è il tempo materiale, visto che mentre questo è nei negozi, nelle fabbriche si sta già producendo la collezione nuova).

Per la legge dell’economia di scala, più produci, meno spendi.

La qualità dei tessuti

Basta un giro in un negozio fast fashion, e leggendo le etichette sugli abiti, si vede che la composizione dei materiali di rado prevede 100% cotone, 100% lana, 100% seta, ma piuttosto un misto con altissima percentuale di sintetico (viscosa, elastame, poliammide…) che abbassano ulteriormente il costo del capo.

La produzione

Taglio e confezionamento dei capi avvengo in quei paesi dove la manodopera ha un costo più basso, le condizioni contrattuali per i lavoratori meno stringenti (per non dire assenti) e le normative anti-inquinamento più concessive, tipo Marocco, Turchia, Cina, Bangladesh, Vietnam, Brasile. E il costo del capo scende.

Tutto questo lo scrivo non per fare un pistolotto contro il fast fashion e invitare tutti a unirsi in una crociata di boicottaggio.

Anche io compro fast fashion, quindi sono la prima a non potermi erigere a paladina della moda sostenibile.

Ma scrivo per una questione di consapevolezza, perché quando compriamo fast fashion, sappiamo cosa stiamo portando a casa e che segmento rappresentiamo nel mercato.

A me piace seguire la moda, il fast fashion ha reso accessibili a tutti i trend lanciati dalle passerelle, cosa che prima era di appannaggio solo di pochi privilegiati.

Il cappottino a trentanove euro e novanta ha contribuito a eliminare una barriera sociale che distingueva in modo netto il ricco dal povero e questo, almeno, rappresenta un progresso sociale che era un saldo baluardo dell’Italia del dopoguerra.

Ma una cosa dobbiamo tenerla a mente: la professionalità di un designer (la stessa di quella del dentista che ci cura una carie, e quindi da lui pretendiamo capacità e competenza); la qualità di un tessuto naturale destinato a durare nel tempo; l’equità e dignità del lavoro di chi produce i capi (e che vogliamo anche per noi stessi ogni giorno) hanno un costo, e in genere è un po’ di più di trentanove euro e novanta.

Consapevolezza, dal mio punto di vista, non vuol dire boicottare la fast fashion; significa non comprare esclusivamente fast fashion.